Gerardo Attanasio

Gerardo Attanasio

Canzoni da lontano

intervista di Francesco Nunziata

Gerardo Attanasio è uno dei segreti meglio custoditi del cantautorato italiano. Dopo un esordio interlocutorio, con il recente "I Canti dell'Ontano" il cantautore napoletano è riuscito finalmente a mettere su disco l'essenza più profonda della sua ispirazione, producendosi in una carrellata di canzoni che meritano sicuramente di essere scoperte da un pubblico sempre più vasto.
Incontro Gerardo a Castellammare di Stabia, durante una domenica pomeriggio di Novembre stranamente afosa. Dopo un caffè, una lunga passeggiata sul lungomare e una chiacchierata stuzzicante...

Allora, Gerardo, “I Canti dell’Ontano”, il tuo secondo lavoro, è uscito già da qualche mese e, tra i dischi italiani usciti in questo 2014, è sicuramente quello che mi ha convinto di più. Le sue canzoni mi ritrovo addirittura a fischiettarle, di tanto in tanto. Come sta andando il disco? Che tipo di reazioni hai avuto?

Mi fa piacere che pensi questo. Il disco è uscito il 12 giugno e lo abbiamo suonato abbastanza tra Napoli e provincia con qualche incursione umbra e a Roma. Cammina lento e inesorabile. Dopo alcuni concerti fortunati a Napoli c’è chi si è proposto di lavorare per conto mio al booking sul territorio, è un buon risultato per me. Le reazioni del pubblico, quando si riesce a costruire lo spettacolo così come è stato concepito, sono molto positive. Finora sono state poche le occasioni in cui ho potuto farlo, per questo sto girando di più voce e chitarra. Le canzoni perdono il vestito, ma probabilmente si apprezza di più il lavoro sui testi. Negli arrangiamenti è stato volutamente occultato per non mettere sempre in primo piano la voce, come da prassi cantautorale.

Come ti sei avvicinato alla musica?
Più che alla musica, mi sono avvicinato alla canzone che è per definizione un’arte trasversale. E’ come i centauri o le sirene: né esclusivamente poesia, né esclusivamente musica. Ho cominciato come molti a tredici anni con una chitarra da strimpellare, carta e penna per riscrivere il mondo.

Come nascono le tue canzoni?
Le più fortunate di getto testo e musica, e ormai a volte anche arrangiamento. Le altre, e sono quelle più numerose, hanno bisogno di essere aiutate con il lavoro. In genere appunto idee, bozze, atmosfere e conservo tutto. Al momento opportuno seleziono e valuto se è il caso di insistere o meno.

Quali sono gli artisti che ti hanno ispirato di più?
Evito di farti tanti nomi. Mi limito a dire che sono stato influenzato dai menestrelli. Poi ho dovuto fare di necessità virtù nell’arrangiarmi e produrmi. Negli anni ho imparato a usare gli attrezzi del mestiere che non erano i miei propri anche grazie a Peppe De Angelis, cha ha coprodotto il secondo disco. Nel suo Monopattino recording studio di Sorrento abbiamo ripreso alcune delle batterie e tirato giù quattro mix. Ho dovuto allargare i miei orizzonti musicali ascoltando tanti dischi dei generi più disparati e l’idea di curare di persona gli aspetti che normalmente avrei affidato ad altri ha cominciato a divertirmi, tanto che non so se saprei farne a meno oggi. Per ogni aspetto produttivo ho dei dischi e degli artisti di riferimento. In genere amo gli irresponsabili: quelli che non si sono limitati a fare le cose “come si deve”. Poi prediligo canzoni che abbiano un linguaggio musicale anche elementare, ma vero e potente, e una certa dose di umanità nei testi, meglio se tendenti al poetico. Più Omero che Bach.

Il tuo primo lavoro si chiamava "Vivere Lento". In cosa differisce dal tuo nuovo lavoro?
Il primo è un disco fatto più o meno come si deve. Il secondo è un disco irresponsabile.

"Vivere lento" è un disco che ti fotografa, a mio avviso, in una fase di transizione. Insomma, l'impressione è quella di un artista che sta ancora cercando la sua voce, confrontandosi con le sue influenze. Sei d'accordo?
Pienamente. Grazie per artista, ma insieme a capolavoro è una parola che uso di rado. Oltre a quel che hai rintracciato c’è un desiderio, credo legittimo per un ventiseienne, di essere accessibile a quante più persone possibile. E’ un disco che non corre rischi importanti, fatto anche abbastanza bene tecnicamente, ma che nella scrittura è poco omogeneo. In alcuni punti mi risulta ancora inascoltabile, mentre in altri mi gratifica scovarci i semi di alberi che stanno crescendo in altri progetti.

Rispetto a “Vivere lento”, “I Canti dell’Ontano” mostra un lavoro di studio molto più accurato, quasi come se per te lo studio di registrazione fosse, nel frattempo, diventato un vero e proprio “strumento”…
“Vivere lento” è un disco fatto con una buona dose di accuratezza, anche perché era il primo e sia io che il tecnico che ci lavorò volevamo tirare fuori un buon risultato, fatto a regola d’arte. “I Canti” è paradossalmente più estemporaneo perché è stato registrato soprattutto nel mio studietto e lì ho avuto la possibilità di impiegare il tempo che volevo per scoprire cose senza la preoccupazione di svenarmi economicamente. Quindi il disco è stato, oltre che una chiara urgenza espressiva, un grande banco di prova per imparare quante più cose possibile del mestiere. Poi, in molti momenti ho avuto un compagno di giochi ben preparato e che non mi ha impedito di fare follie, Peppe, con microfonazioni non convenzionali, uso creativo di plug-ins destinati a impieghi diversi da quello per cui sono nati, campionature, registrare lanci di biglie sul pavimento, tante cose, ce la siamo spassata… in effetti gestire in prima persona lo studio è proprio come scrivere, solo che invece delle parole si usano i suoni. Il criterio per me è stato questo e uno degli ispiratori Brian Eno.

A proposito, so che proprio in questi giorni “Vivere lento” è stato premiato…
Si. In passato ha ricevuto anche altri riconoscimenti. Fanno piacere, ma a volte possono essere molto relativi.

La vita “lenta” è quella che ti fa meglio assaporare le cose e le persone?
La vita lenta è quella sincronizzata sui ritmi della terra. “Vivere lento” voleva essere un augurio per me e per chi ne avrebbe amato le canzoni: l’augurio di trovare ognuno il proprio ritmo senza lasciarsi sopraffare dalla fretta. Quella lentezza è poi diventata una maledizione visto che ci ho messo cinque anni per fare uscire un altro disco…

Quanto c’è di Castellammare di Stabia, la cittadina dove risiedi attualmente, nelle tue canzoni?
Intanto a Castellammare ho il mio project studio, Blue bell, non risiedo lì, ma ci ho passato molto più tempo che altrove finora. Soprattutto ne “I canti dell’Ontano” c’è tantissimo di Castellammare, Gragnano e dintorni. Colline, mare, montagne: tutti posti in cui vado spessissimo e che conosco molto bene. Qui tutto è casa, indipendentemente dalla città, paese o frazione... Il mio immaginario si è formato in questi luoghi, sotto questa luce. Non sono mai stato uno che sognava di essere altrove. Ho sempre amato questo posto e sono stato fortunato a poterci rimanere: è normale che lo racconti, è la cosa che conosco meglio.

Come nasce il titolo del tuo nuovo disco?
Da un’ossessione che mi porto dietro dai giochi d’infanzia. L’ontano è un albero che ho imparato a riconoscere abbastanza in fretta fra queste colline. C’è un gioco di parole tra il nome dell’albero e l’avverbio lontano. Ogni canzone declina un tipo di distanza. Il suono evoca un bosco intricato.

Hai personalmente curato l’artwork del nuovo disco?
No, ma sono stato molto presente nelle direzioni da dare alle persone che ci hanno lavorato. L’artwork è vagamente impressionista. Nulla è netto, ben a fuoco… tutto è avvolto dalla bruma. Come i suoni.

Vuoi parlare un po’ delle canzoni del secondo disco? C’è un fil rouge che le tiene insieme?
Racconto diversi tipi di distanze: dall’infanzia, dai desideri, distanza tra i sessi, desiderio di lontananze, di sfuggire alla vita di provincia, oppure di arrivare in un lontano che non è luogo fisico attraverso l’amore nella più vasta delle accezioni, distanza dalle gioie del sesso con “L’istinto”, il cui protagonista è derivato da Pavese; spavaldi amori platonici via chat, distanza dalla classe borghese a cui tutti ormai, più o meno, apparteniamo, ma che siamo pronti a criticare senza capire bene che cosa implichi farlo… insomma, varie distanze fino ad arrivare a quella finale, suprema… che è la distanza dalla vita: la morte. E’ un lavoro che risente del senso di precarietà diffuso. Ma non manca il riscatto, la luce fra le fronde. Non una volta fanno capolino nei testi le parole crisi, precariato o affini. Riflette il momento storico in maniera obliqua.

Uno dei brani che mi ha colpito di più, sia a livello di musica che di testo, è “I bambini perbene”. Un brano che si muove tra incanto west-coast e deliquio ipnotico…
E’ una canzone molto vecchia, presente già nel secondo demo del 2006 “In due ore”, in versione minimale: voce, chitarra, Farfisa. Nel disco, invece, credo che quanto rintracci di west-coast sia da imputare alla sezione ritmica: chitarra acustica, basso e batteria. Per la foresta di chitarre elettriche invece io e Peppe De Angelis abbiamo fatto riferimento più al sottobosco della psichedelia europea e kraut-rock, o a band anche più vicine nel tempo come i Bardo Pond. L’assolo finale con bottleneck, sporco ed espressivo, è di Antonio Ostuni e di matrice tipicamente blues. In generale è una canzone che riflette la riluttanza di un ventenne curioso a frequentare solo buone compagnie, la scrissi di getto… uno sfogo, più che altro, contro certe dinamiche da cui mi sentivo distante.

Quali sono i dischi e i libri che hanno maggiormente influenzato la scrittura di "I Canti dell'Ontano"?
Troppi per poterli citare. Arrivo a questo disco con tutta la mia esperienza di vita che comprende  innumerevoli ascolti e letture, ognuna ha influito in qualche modo. Quelli più evidenti sono Borges e Pavese, ma c’è tanto altro. Per rifarci alla prima risposta invece, l’idea di “imboscare” la voce, lì dove serve, arriva da "Anima Latina". “I Canti” deriva forse da ascolti adolescenziali di dischi barocchi come "Ok Computer", "Mellon Collie...", ma nel corso degli anni ho macinato tantissima roba e quindi lo sforzo che ho fatto è stato quello di trovare una mia voce, equidistante da ogni influenza, per quanto elementare o sbagliata che fosse.

Raccontaci un po’ del processo creativo… come lavori?
Ogni canzone ha bisogno di un metodo a sé per venir fuori. Devo crederlo per sentirmi sempre alla scoperta di qualcosa di nuovo. La tecnica privilegiata è quella di seguire la musica e far sì che sia essa a suggerire le parole. Normalmente prima si scrive la canzone, poi la si arrangia e in fine si entra in studio a registrare. Per questo disco non è stato così. Alcune canzoni le avevo già da molti anni. Altre le ho fatte nascere nel mio project studio lavorando alle pre-produzioni: un suono mi suggeriva una parola e viceversa, cresceva tutto insieme. Ogni cosa ha una sua precisa ragione d’essere lì, una ragione non geometrica.

In riferimento a Pavese e ai tuoi progetti futuri, come concepisci la relazione tra letteratura e forma-canzone?
C’è una casualità che diventa sostanza.  Il viaggio è lungo, non ne usciremmo… Basti sapere che mi nutro di letteratura, è inevitabile che la mescoli alla vita e la sputi fuori in forma di canzone. Per il futuro mi piacerebbe toccare Catullo, Whitman, Dickinson, i latino-americani, e, perché no, qualche amico ancora clandestino…tutto dipenderà dalla musica.

Amico clandestino?
Qualche poeta ancora non consacrato dalla cultura ufficiale, qualche coevo che potrebbe interessarmi.

Raccontaci qualche aneddoto particolare legato alla gestazione e alla registrazione de “I Canti dell’Ontano”.
Una giornata a registrare in presa diretta "Marilù" alla Phonotype di Napoli, lo studio che ha fatto la storia della canzone napoletana: da Sergio Bruni a Bennato, solo per citarne due. Il suo progetto acustico, quanto a materiali e tipologia di sala riprese, si rifà a quello di studi come Abbey Road, Officine meccaniche o anche il Trafalgar di Roma dove ho potuto suonare a settembre. Non sono studi moderni, attrezzati con i materiali che si usano oggi, infatti anche l’odore che hanno è tutt’altra cosa. Un salto nel tempo… Per noi che amiamo questo mondo non è stato solo registrare una canzone, ma fare una vera e propria gita d’istruzione in un tempio della musica. Da  fonico alle prime armi è stato utilissimo per capire come si comportano microfoni leggendari che non hai grandi occasioni di incontrare ogni giorno. Una chicca. Volevo un pianoforte a coda per provare a suonare senza click tutti insieme, e Peppe mi ha portato a vederela per capire se il loro strumento poteva andare. Appena ci ho messo piede ho deciso: era un’esperienza da fare. Un’altra bella giornata fu quella trascorsa nella chiesa di San Benedetto ad Angri a registrare i Tamburini medievali del borgo Ardinghi che puoi sentire a un certo punto in "Mistral" e nella chiusa del disco, la coda di "Umor Vitreo". Lì ci siamo divertiti a registrare i ragazzi diretti dal signor Vincenzo Del Sorbo, che è stato gentilissimo. Poi, che dirti, molte notti a fare tardi e dormire nel mio studio in giacigli d’occasione. Lavorare negli orari più assurdi. Tanta gioia, tante noie, tanti problemi tecnici per gestire un disco così ricco con i mezzi di un piccolo project studio… tanti ricordi.

Come è cambiato, a tuo avviso, il ruolo del cantautore durante questi anni?
Io credo che il cantautorato sia un po’ appiattito dall’esigenza di comunicare a persone distratte e frettolose. Tutto è veloce. Il tono troppo colloquiale, poco artistico, sempre meno poesia. Molto più che un cantautore oggi serve un animatore, un anestetico. Il massimo della disobbedienza è un vaffanculo. Lecito, ma non mi serve. Mediamente si cerca più qualità tecnica che personalità. Per personalità non parlo di look o atteggiamenti, ovviamente. Questa la sottoscrivo a Mauro Pagani. Da un punto di vista musicale c’è un declino della melodia, è sempre più difficile inventarne di belle, che restino, perché in fondo si pensa che le migliori siano tutte già scritte: si cerca rifugio nell’armonia, nel ritmo, nel virtuosismo o nel bel suono, ma mancano le canzoni. Io prediligo la generazione di Conte, De André, Dalla, Guccini, Dylan, Buckley senior, Gabriel, adoro Nick Cave… li sento più intensi rispetto a noi e fin dove posso cerco di farmi ispirare. Credo che il ruolo ideale del cantautore resti cristallizzato in quello suggerito dalle illuminazioni del Dylan elettrico: non deve riflettere il proprio tempo, ma ambire a parlare al cuore dell’uomo: essere universale.

Quali saranno le tue prossime mosse?
Suonare il più possibile in giro per l’Italia. Da un punto di vista creativo so bene dove andare a parare, ma preferisco non parlarne ora.


Discografia
 
GERARDO ATTANASIO 
   
 Vivere lento (autoprodotto, 2009) 
I Canti Dell'Ontano (Blue Bell, 2014)
 
Terraferma (Blue Bell, 2019) 
   
   
 DEGRÉ ZÉRO
 
   
Kosmos (Blue Bell, 2020) 
pietra miliare di OndaRock
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