Giorgio Poi torna con un nuovo album nato da un tempo lungo e denso, attraversato da trasformazioni interiori, cambiamenti affettivi, aperture improvvise e crisi silenziose. "Schegge" è una storia di emozioni, un viaggio fatto di frammenti che si ricompongono, di immagini che emergono dal fondo, di canzoni delicate e potenti che, scaturite da un vissuto personale e interiore, invitano a dialoghi fra anime, e arrivano così a sfiorare la memoria collettiva.
Giorgio ci ha raccontato la genesi del disco con la delicatezza visionaria e la precisione schiva ed essenziale che caratterizzano la sua scrittura: si parla di corpi, sogni, malinconie, suoni cinematografici e di un mondo espressivo che è anche personale attitudine a vivere, osservare, restare. Le sue canzoni "guardano forte", come dice la perentoria dolcezza di una delle immagini più luminose del disco. E ci invitano a fare lo stesso.
Schegge da un "porto sepolto"
A proposito dell’album hai detto che i brani sono nati in un arco di tempo piuttosto lungo, dal 2022 al 2024, durante il quale sono successe molte cose, alcune belle, altre meno. Le “Schegge” scaturiscono da una sorta di esplosione che però interpreti in modo positivo, come un'apertura. In che senso?
Sì. Quando qualcosa esplode, libera energia. E l'energia non è quasi mai solo distruttiva: costruisce anche qualcosa. Anche dalle situazioni più complicate può nascere qualcosa di sensato, buono e persino bello. Io ho scelto di lasciare che le cose esplodessero. Quando cerchi di tenere insieme ogni filo e poi ti rendi conto che qualcosa ti sfugge, sì, c'è un dolore, un dispiacere... ma subentra anche una certa quiete. Ti rendi conto che, a un certo punto, la vita fa il suo corso e non si può più controllare tutto e va bene anche così.
Ascoltando i brani mi è venuto da pensare a Ungaretti, quando usa l’immagine del "porto sepolto", da cui poi il poeta riemerge per disperdere i suoi canti. Non sono anche queste canzoni dei tuffi dentro un sé interiore, da cui sei riemerso con delle schegge musicali da far volare nell’aria?
Credo proprio di sì. In questo periodo sono cambiate così tante cose intorno a me, che ho vissuto una sorta di piccola crisi d'identità. Scriverne è stato un viaggio personale. Non ho pensato alla musica come prodotto, ma come ricerca quotidiana. Tra l’altro, proprio in quel periodo, due anni fa, ho iniziato per la prima volta un percorso psicologico. Non avevo mai parlato con uno psicologo prima, ed è stata un’esperienza che ho trovato molto interessante e utile. Mi ha aiutato soprattutto a capirmi meglio, a scavare dentro di me. Anche durante quelle conversazioni ho scoperto molti elementi che poi sono entrati nelle mie canzoni: scavando emergono verità profonde, anche attraverso il racconto dei sogni. Interpretare la propria psiche può essere uno strumento prezioso per esprimersi e per aprirsi davvero.
Grammatiche del corpo
Nel brano di apertura "Giochi di gambe", canti delle parole bellissime: “Sulle tue gambe batte un sole che mi fa morire/ Però ti guardo forte per capire cosa stai per dire/ Ah: "Forse oggi pioverà". L’immagine del “guardare forte” una persona, o qualcosa, per carpirne la voce interiore, ascoltarne le parole come in un presentimento, colpisce in profondità l’ascoltatore. Quanto sono state importanti le immagini nell’esprimere un ritratto così intimo di te?
Anche se, come ti dicevo, il mio vissuto personale in questo disco è, non voglio dire ingombrante, ma sicuramente centrale, ho cercato una elaborazione espressiva di quei vissuti, di raccontarne un precipitato emotivo. Ne è scaturita una storia, una non meglio precisata storia, non tanto dei fatti, ma delle loro conseguenze dentro di me. Ho cercato di esprimerle, e nello stesso tempo di conoscerle anche attraverso la scrittura. Senza razionalizzare troppo, ma facendo emergere le immagini che mi venivano alla mente e lasciandole parlare.
Per questo sono così importanti i dettagli?
Mi è sempre venuto naturale concentrarmi sui dettagli per raccontare una storia. Spontaneamente mi accade di partire da piccoli particolari. In questo disco, ancora più del solito, c'è un elemento quasi cinematografico, fatto però di primi piani, di close-up.
Parli di una storia, anzi, di una “non precisata storia”, infatti il disco, benché fatto di schegge, è molto unitario…
Sì, le schegge si ricompongono. È come se, dopo essersi disperse, si ritrovassero. Prima erano un’unità, poi sono esplose, ciascuna ha preso la sua strada, ma ora tornano a formare un disegno unico.
Ci sono anche dei fili rossi. Uno in particolare mi ha colpito: in ogni canzone si parla del corpo. Gli occhi, le mani, le dita, le gambe… È un elemento ricorrente. Cosa rappresentano il corpo e i sensi in questo album?
Mi piace che questo aspetto venga fuori. Effettivamente è un riflesso del fatto che in questi anni il rapporto che ho con il mio corpo, e anche con quello degli altri, si è evoluto. È come se, per molti anni, avessi vissuto soprattutto nella mia testa, dimenticandomi quasi dell'esistenza dei corpi. A un certo punto, invece, la presenza dei corpi è diventata una evidenza nuova e forte: il mio, quelli degli altri, quelli delle persone a cui voglio bene. Corpi che possono essere forti o fragili, belli, accettati o rifiutati. Corpi che semplicemente esistono.
C'è luce anche "nel buio più cocciuto"
Anche se parli del privato, si ha la sensazione che tu stia in qualche modo alludendo a una vicenda collettiva, come se questo esplodere in schegge stesse un po' capitando a tutti. A parte il fatto che in un momento storico come quello attuale stiamo vivendo un'epopea collettiva di esplosione, o implosione piuttosto, ognuno di noi ha una crisi da far risuonare insieme a queste canzoni…
Mica una soltanto! Probabilmente nell'arco di una vita ce ne saranno varie… a partire dall'infanzia. Le crisi costellano le nostre esistenze e quello di raccontarne è un desiderio umano. Anche se non ho mai avuto la presunzione di parlare a nome di altri o per conto di più persone, ho voluto condividere anche i risvolti positivi di un momento di transizione. Per esempio, quando in “Tutta la terra finisce in mare” canto “Ma una luce si accenderà/ Nel buio più cocciuto”, voglio dire che anche se a volte il buio sembra irrimediabile, comunque alla fine ci sarà un modo per capire, vedere, guardare oltre.
E poi a volte anche al buio si sta bene. La malinconia non te la godi un po’?
La malinconia non è una sensazione necessariamente spiacevole. Non è la tristezza, non è la depressione. Forse non è il vero buio, quello può essere davvero insopportabile. E credo di non averlo mai davvero vissuto. Però lo immagino ed è una cosa che mi spaventa. Se avessi vissuto il vero buio, non avrei scritto un disco, non ce l’avrei fatta a inventarlo. Se riesci a creare qualcosa, vuol dire che hai dentro una scintilla di entusiasmo. Che puoi startene tranquillo al buio, sapendo che finirà, che in opposizione esistono i colori, una luce, la leggerezza che farà la differenza.
Roma, mattino, esterno giorno
L’emotività del racconto ha un riscontro molto profondo anche negli arrangiamenti, ricchi di sfumature, di microeventi, di equilibri delicati che si rivelano man mano negli ascolti. Per esempio, ho ritrovato un gioco dinamico fra l’uso della tonalità minore e gli accordi orchestrali le cui voci sono distribuite in modo arioso. Una scrittura di questo tipo potrebbe ricondurre alla stagione più classica delle colonne sonore, quella di Trovajoli e Morricone?
Sì, ho ascoltato
Trovajoli, o il
Morricone di “
C’era una volta in America”, mentre scrivevo. E poi anche tanto Francis Lai, la colonna sonora di “Bilitis”. Inoltre, c’è sicuramente un elemento classico, sia perché lo si ritrova nelle colonne sonore, sia perché ne sono stato influenzato direttamente. Ho ascoltato Wagner, Bach, Rachmaninov, e probabilmente anche questi hanno lasciato un'impronta, sono entrati nel percorso di elaborazione emotiva di cui ti parlavo.
“Schegge”, lo strumentale di questo disco, ha già in sé qualcosa che ricorda un'apertura cinematografica, quasi una sequenza di titoli di testa. Rispetto agli strumentali dei dischi precedenti, questo ha una scrittura più dichiaratamente “cinematica”, anche nella grammatica musicale utilizzata. Sei pronto a scrivere una colonna sonora per il grande schermo?
Certo, prontissimo. È un mondo che mi affascina molto. Probabilmente è il frutto degli ascolti che ho fatto in questi anni. Ho ascoltato molte colonne sonore e ho iniziato a vivere la musica come una sorta di colonna sonora del mondo che mi circonda. Che è tornato a essere Roma. Passeggiando per la città, spesso la mattina, con la musica nelle orecchie, mi sembrava che tutto si trasformasse: le strade e le persone intorno a me diventavano parte di una scena. Era come se la musica accompagnasse quei momenti e ne amplificasse il senso.
By the time I get to Phoenix
Questo respiro ampio, avvolgente convive però con l’uso delle tastiere analogiche, che ci sono sempre state nei tuoi dischi, ma qui si sente anche un po’ il tocco di Laurent Brancowitz dei Phoenix, che è un tuo estimatore da sempre e qui dà una supervisione amichevole ai suoni. Cosa mi dici di questa commistione, che è uno degli elementi più originali del disco?
C’è una coesistenza di elementi diversi: da una parte una componente eterea, dall’altra qualcosa di più preciso, tagliente, quasi acido. Negli ultimi anni poi mi sono innamorato del contrappunto, inteso come accompagnamento tramite cellule melodiche che si intrecciano. Così, ad esempio, uso i sintetizzatori in modo quasi orchestrale: non tanto per costruire accordi, ma per creare linee indipendenti che, incastrandosi tra loro, formano il tappeto armonico. È come un
pad, ma animato da singole voci che si muovono, hanno una loro vita, imprimendo alla musica un equilibrio dinamico, che respira e cambia forma.
A volte gli esiti armonici sono spiazzanti, come “Un aggettivo, un verbo, una parola”, che quasi mi fa pensare a un Todd Rundgren…
In quel caso, l’idea era di costruire una sequenza di accordi in cui una voce, in particolare, scendesse sempre. Tutto il movimento declina: è una lenta discesa verso qualcosa di più torbido, quasi inquieto. C’è questa tensione data proprio dal moto tutto discendente, che crea un’atmosfera particolare, come se si scivolasse piano in una zona d’ombra, in una profondità torbida.
Il “porto sepolto” di cui dicevamo in apertura?
Esatto, sì, è proprio quella discesa. Tra l'altro, è la prima canzone che ho scritto di questo disco. Quindi è proprio l'immersione, lo scendere in un luogo che non conoscevo veramente: la parte più profonda di me, quella che sta giù, invisibile, molto al di sotto della superficie.
Del mare e "delle barche e transatlantici"
Però “Tutta la vita finisce in mare” anche nel senso latitudinale dei viaggi, che sono pure dei percorsi conoscitivi verso situazioni nuove. Tu hai viaggiato molto in questi anni, negli Stati Uniti con i Phoenix, durante il mini-tour asiatico che ti ha portato a esibirti a Pechino, Tianjin e Hong Kong, a Città del Messico, dove hai aperto le date di León Larregui. Che effetto ha questo sulla tua creatività? Come ti sei trovato in queste situazioni?
A tratti un po' spaesato, però c’è una cosa importante per me, che finisce col prevalere. Di mio non sono un grande viaggiatore, nel senso che non amo andare in un posto soltanto per vederlo. Sono più aperto a conoscere se non è quello lo scopo per cui sto viaggiando. In quel caso, il rischio sarebbe quello di esercitare delle pressioni sulle proprie sensazioni. “Sono venuto qui per conoscere, per provare cose nuove, perché non sto provando granché?”.
Se invece sei in un luogo per un motivo preciso e il tuo scopo principale è quello, la predisposizione a lasciarti stupire da qualcosa che vedi nel frattempo è maggiore. Gli incidenti di percorso possono essere molto più belli rispetto alle cose che ti vai a cercare. Succede anche quando fai una commissione a piedi e sul tragitto vedi delle cose che ti piacciono. Insomma, in realtà sei più attento, proprio perché sei più distratto.
Così lasci gli occhi liberi di “guardare forte”?
Esatto.
Mi sembra che i testi lascino dello spazio alle interpretazioni. È una cosa voluta? Hai voluto lasciare delle aperture all’ascoltatore perché interagisse con le parole?
Non consapevolmente. In realtà, penso che si possa sempre capire quello che sto dicendo, magari non tutto immediatamente. Necessariamente qualcuno capirà una frase, qualcuno ne capirà un'altra, qualcuno ne metterà insieme due o tre e ne farà una sua interpretazione. Io stesso non ho una visione d'insieme finché non ho finito di scrivere.
Vista la soggettività del racconto, mi sembra giusto chiedertelo: scrivere per te significa aprirti a chi ti ascolta?
Sì, nel mio desiderio di esprimermi c'è la ricerca di condivisione, dell’appoggio di qualcuno che possa vibrare insieme a me. Credo che scrivere sia anche chiedere a un tu immaginario se prova i tuoi stessi sentimenti ed emozioni.
Quando hai composto “Delle barche e i transatlantici” era già salito al potere Trump, o sentivi nell'aria che il sogno americano stava finendo?
No, era già successo tutto. E poi il sogno americano è finito già da molto tempo. In quel caso, non pensavo davvero all’America in senso letterale. Pensavo piuttosto al sogno di un mondo nuovo. È una metafora dell’attesa, del desiderio di qualcosa che non c’è. Certo, ciò che è accaduto è tragico e ci ha tolto delle aspettative, però non c’è un’affinità diretta con la storia attuale, ma un’immedesimazione tutta interiore nello stato d’animo di chi sta cercando qualcosa.
Dallo studio al palco
A proposito di aspettative, tu hai quella di un tour, anche europeo. So che avete dovuto ingrandire la venue di Berlino, per sovrabbondanza di pubblico e che suonerai con il tuo consueto team di bravissimi musicisti, Francesco Aprili, Benjamin Ventura, Matteo Domenichelli. Ti senti carico?
Assolutamente! Anche perché è un po' di tempo che non andiamo in giro a suonare con la band al completo, abbiamo fatto delle cose in due, pianoforte e chitarra, formula che mi piace anche molto, però il concerto vero è un'altra cosa!
Nel disco, però, mai come questa volta, hai fatto tutto da solo…
Sì, più o meno è quello che faccio sempre, ma in questo disco c'è stata una novità importante. Ho costruito uno studio a Roma, quindi ora posso anche suonare e registrare la batteria da solo, cosa che prima non potevo fare, ed è un grande vantaggio. Posso rifare le cose tutte le volte che voglio: cambiare una parte, rivedere una struttura. La canzone può evolversi liberamente. Anche se ho già registrato la batteria, non è un problema: se cambia l’idea, la rifaccio. Questo mi dà molta più libertà creativa. Certo, seguire ogni aspetto da solo, dai testi alla scrittura, agli strumenti, agli arrangiamenti, alla produzione, alla registrazione richiede molto tempo, forse anche per questo impiego sempre un po’ a finire un disco, in compenso però riesco ad avere il pieno controllo su quello che faccio.
(2 maggio 2025)