Kety Fusco

Una rivoluzione nel mondo dell'arpa

intervista di Daniel Moor

Dopo aver assistito al suo ottimo concerto a Orselina, sul finire di agosto ho incontrato, sempre nella Svizzera italiana, l’arpista toscana Kety Fusco. Al caldo torrido erano subentrati giorni di maltempo, con grandinate e temporali inquietanti: laddove le estati in tutta Europa sono segnate sempre più da eventi metereologici estremi, alluvioni disastrose e incendi diffusi, il videoclip del suo singolo “Starless”, estratto da “The Harp. Chapter One”, sembra profetizzare proprio la rovina imminente. Fusco non è però intenzionata a soccombere alla crisi climatica e alle sue possibili conseguenze sociali, economiche e geopolitiche. Sembra piuttosto alla ricerca di una via squisitamente artistica che possa ristabilire un’umana empatia in una società sempre più polarizzata e disconnessa. Una via dettata, ovviamente, dal suono trasfigurato della sua arpa, la quale, ormai da tanto tempo, si è avventurata ben oltre la sua dimensione tradizionale. La musicista italiana, ma in pianta stabile in Ticino, ci parla dunque del suo ultimo album, delle collaborazioni con Motta e Iosonouncane e dei suoi progetti futuri, a partire proprio da quel “Chapter Two” di cui ci ha già dato un meraviglioso assaggio durante i suoi concerti recenti.

Siccome recentemente ho avuto modo di assistere a un tuo concerto, vorrei iniziare questa intervista parlando proprio della dimensione live. Come approcci generalmente una performance dal vivo?
Ultimamente sto suonando con due arpe: un’arpa elettrica, che è un po’ la cosa nuova, e un’arpa classica, che è invece quello che ci si aspetta di sentire durante il concerto di un’arpista. Mettere a confronto i due strumenti mi stimola molto e crea una sorta di “disturbo”: con l’arpa classica cerco spesso di ricordare al pubblico come è il suono tradizionale, mentre con quella elettrica creo il mio percorso. Inoltre, generalmente, la scaletta del concerto la scelgo sul momento: ho una lista dei pezzi e, a dipendenza dalle vibes del pubblico e da come mi sento io, scelgo quali brani suonare.

Però, il concerto a cui ho assistito mi era parso strutturato in due se non tre parti ben distinte e mostrava una logica chiaramente tutta sua.
Bene! Comunque, mi diverte molto questo procedimento. A volte sono io ad aver bisogno di un live più ambientale, a volte, invece, voglio spingere con la parte elettronica e darci dentro.

Portare sui palchi il tuo ultimo progetto “The Harp”, molto sperimentale e avanguardistico, rappresenta per te un’esperienza particolarmente differente rispetto a interpretare i brani del tuo debutto “Dazed”?
Sì, in effetti lo è, perché con “The Harp” entro in una dimensione particolare. Fuoriuscendo dal mondo classico, “Dazed” mi aveva portato molto lontano da dove ero partita con i miei studi, distorcendo fin da subito la concezione di arpa. Sentivo, però, che mi mancava una sorta di passaggio centrale. “The Harp” è più sperimentale, ma mi rappresenta anche di più ed è quello che voglio comunicare ora con la mia musica. Riportandomi per certi aspetti alla dimensione classica, le sonorità di “The Harp” mi hanno permesso di sviluppare un discorso musicale che distruggesse progressivamente questa dimensione di partenza.

Del resto, ascoltando i tuoi due progetti si sente che sono due mondi diversi. Mentre “Dazed” è più elettronico, “The Harp” rimanda forse alla classica, ma, come dici tu, va oltre, il che è molto interessante.
Il capitolo due di “The Harp” sarà un po’ via di mezzo tra i due. Ci saranno pezzi elettronici, ma composti con un’elettronica organica presa tutta dai suoni dell’arpa, a differenza di “Dazed” che aveva suoni elettronici digitali. Con questo nuovo capitolo ho deciso di trasformare il comparto elettronico partendo solo da quello che può fare l’arpa. Ad esempio, un colpo di arpa, pitchato in basso, potenziato, dà un suono elettronico molto simile a uno digitale.




Immagino che questo rientri nella logica della libreria digitale che hai creato.
Esatto, il mio obiettivo è riuscire a scrivere un pezzo completamente elettronico, alla Moderat se vuoi, tutto con i suoni dell’arpa tradizionale, chiaramente poi manipolati.

Tornando invece al discorso riguardante i tuoi concerti, quest’anno hai suonato anche alla Royal Albert Hall. Come è stato per te essere in una location così importante?
È stato spiazzante! Quando studiavo, avevo frequentato una masterclass al Royal College, di fronte alla Royal Albert Hall, e mi chiedevo se sarei riuscita, un giorno, a suonarvici. E poi quando ero lì, quest’anno, mi sono venuti i brividi. Ci sono arrivata e ho definito un punto nella mia carriera da cui posso ripartire per raggiungerne altri che ritengo necessari, importanti, per me e per il mio discorso con l’arpa.

Inoltre, suppongo che quando studiavi non ti saresti mai immaginata di arrivare a suonare lì con la musica che stai proponendo adesso.
Per niente! Ho sempre voluto fare la concertista, ma pensavo che avrei interpretato brani classici. Poi mi sono accorta che mi annoiavo al conservatorio, poiché non potevo interpretare i brani come desideravo io, senza dover sottostare a determinate regole imposte. Questo mi ha spinto a scrivere da me i miei pezzi affinché potessi eseguirli come volevo. E, ora, ben venga se qualcuno prende un mio brano e lo stravolge!

Avevo letto di questo tuo atteggiamento punk e, beh, si percepisce la rottura con il mondo classico, che è poi quello che fai con la tua musica. Tuttavia, è estremamente interessante vedere come lo proietti anche su quanto hai vissuto nel tuo passato percorso musicale. Ora vorrei però tornare sul legame tra “The Harp” e il tuo progetto di campionare oltre 400 suoni e rumori con l’arpa tradizionale. Sono nati contemporaneamente o “The Harp” è, se vuoi, il seguito di quest’idea di libreria digitale?
Sì, è stata per certi versi una conseguenza. Prima avevo deciso di catalogare i suoni e poi ho maturato l’idea di scrivere un pezzo proprio con i suoni che avevo campionato.

Ma cosa ti ha spinto ad archiviare questi quattrocento suoni e a metterli a disposizione di altri musicisti e musiciste?
Desidero presentare un’arpa differente. Ad esempio, non tutti i produttori che ho incontrato erano a conoscenza di tutte le possibili sonorità che può dare un’arpa. Ora, la mia catalogazione potrà essere utilizzata anche da altri musicisti e altre musiciste che operano nei più svariati campi musicali, tra cui anche il mondo pop e rock.

Rispetto a “Dazed”, il tuo nuovo progetto, o almeno il primo capitolo, non è solo più sperimentale, ma anche molto più tetro, angusto, imperscrutabile. È un frutto casuale della tua incessante ricerca con lo strumento o è un paesaggio sonoro che volevi raggiungere fin dall’inizio?
Devo dire che istintivamente scrivo musica triste, tendenzialmente in La minore e in Re minore. Come dicevo prima, il “Chapter One” mi rappresenta veramente nel profondo ed è quello che avevo bisogno di suonare e comunicare.

Alcuni momenti di “Chapter One” sono stati pubblicati anche come singoli. Come li hai selezionati?
Principalmente c’era l’esigenza di comunicare che stavo per pubblicare un album composto da un unico brano di 19 minuti, che per certi versi rappresenta una scelta anticommerciale. Però, nonostante questa necessità, mi è piaciuta l’idea di creare una narrazione per un disco che per me è associato al tema della morte. Il primo pezzo, “2072”, rappresenta il mio io dopo il trapasso ed è una sorta di marcia funebre per me stessa; “Starless”, invece, tematizza una lenta distruzione, ma più in grande, che è poi quella direzione che il pianeta sta prendendo con tutti i cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo.

 


Il video di “Starless” raccoglie infatti riprese di eventi metereologici estremi e calamità naturali. Queste immagini, congiunte alla musica, sembrano presentare un’imminente apocalissi climatica. In che modo la tua musica si rapporta con la crisi climatica e al discorso politico ad essa connessa?
Per me “Starless” è in prima istanza un messaggio per me stessa. Mentre assistiamo a queste eventi estremi, come quelli di qualche giorno fa a Locarno, credo sia importante esprimere un bisogno di umanità e di connessione. Con la musica cerco proprio di stabilire questa connessione intellettualmente, ma anche sentimentalmente, con le persone e di stimolare l’empatia.




È questo uno dei motivi per cui realizzi musica strumentale, privandoti dell’utilizzo della voce e cercando di lavorare proprio sui sentimenti, anche su quelli più sfocati e indefiniti?
Sì, esatto. L’arpa è la mia voce e parla al posto mio. Però a chi approccia la mia musica è richiesta la partecipazione emotiva e la volontà di restare ad ascoltare fino alla fine.

“The Harp” è stato registrato in uno studio sul San Bernardino. Il paesaggio alpino e prealpino della Svizzera italiana ha influito sulla tua visione dell’arpa come strumento o ha ispirato le tue composizioni?
Sicuramente ha influenzato il processo di composizione. A San Bernardino ci si rende conto dell’importanza della connessione con la natura. Lì mi sento parte del bosco e del suo ecosistema e ciò mi aiuta a trovare una calma interiore, permettendomi di sfogare le mie ansie e di liberarmi da esse. E anche se la musica che ho composto possiede sfumature inquietanti, per me essa è lo specchio di una totale libertà creativa ed espressiva. Se lo avessi registrato in un appartamento a Milano, non sarebbe mai stato così.

Rimanendo geograficamente sul San Bernardino, per il festival musicale della tua etichetta, il Floating Notes Festival, che si tiene proprio nella località grigionese, hai portato l’arpista Mary Lattimore nella Svizzera italiana. Come è stato condividere il palco con lei?
La adoro e la stimo molto. Lattimore è una pioniera dell’arpa: negli anni ha condotto un suo discorso personale e riconoscibilissimo. Io l’ho conosciuta di persona l’anno scorso a un festival in cui abbiamo suonato entrambe e, siccome la sua performance mi aveva stregata, ho deciso di invitarla. È stato davvero un onore condividere il palco con lei.

Negli ultimi anni hai collaborato con Motta e Iosonouncane. Che legame hai con il cantautorato indipendente italiano?
Iosonouncane è una fonte di ispirazione per me. Ha collaborato al “Chapter One”: mentre stavo finendo il disco, gli avevo chiesto se volesse aggiungervi qualcosa. Ha scritto una parte con una tastiera che poi io ho riproposto riproducendola con la mia arpa. Mentre con Motta, artista che mi è sempre piaciuto, ho realizzato il singolo “SHIVERS” (2022) cercando di creare un ponte tra il mio e il suo mondo artistico.




E del “Chapter Two” cos’altro puoi dirmi?
Non voglio anticipare troppe cose, ma posso dirti che è composto da pezzi abbozzati molto tempo fa, quando ero al conservatorio, e da altri scritti più di recente. Rispetto al primo capitolo, è un altro tipo di racconto. Per esempio, su un brano una ragazza canta in giapponese e dialoga con un coro che fa invece una parte in dialetto ticinese. E qui torniamo di nuovo al bisogno di connetterci di cui abbiamo parlato prima.

(Settembre 2023)

Discografia

DAZED(Sugar, 2020)
The Harp. Chapter One (Floating Notes, 2023)
Pietra miliare
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