Uno degli errori più evidenti di chi si è occupato della musica italiana del decennio Dieci è stato quello di inserire il progetto Iosonouncane nel grande calderone della musica indie, tentando improbabili collegamenti con vari artisti ritenuti affini, senza comprenderne in pieno l'assoluta originalità. In verità, inserire Jacopo Incani in una qualsivoglia scena italiana, se non fosse altro per l'aspetto geografico o temporale, appare perlomeno artificioso in quanto l'artista sardo, per la meticolosità della produzione, per l'accuratezza della scelta dei testi, per la bizzarria dei suoni e del canto, per la visione politico/sociale/culturale della società italiana, può considerarsi davvero un alieno apolide in patria.
La musica del progetto Iosonouncane sembra un esorcismo solitario che balla sugli orrori italiani, spesso prendendo spunto da episodi di cronaca per cantare le contraddizioni di una società senza ideali se non l’edonismo già denunciato decenni prima da Pasolini, in balia di populismi, volgare e fiero della propria ignoranza, vittima predestinata del demagogo di turno, senza una guida se non quella del proprio istinto di sopravvivenza. L'aspetto solitario pare fondamentale; Incani spesso sembra cercare l’isolamento, quasi un tentativo di piacere a non troppe persone, di essere libero di poter dire tutto quello che pensa senza parrocchie da difendere. Una scelta politica, ma la politica di un partito dove lui è l’unico iscritto. Più che con la musica, un legame che mi è parso subito evidente è quello col grande cinema italiano di denuncia - dai mostri senza riscatto di “Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola, alla sinistra tradita di "La Cina è vicina" di Marco Bellocchio, dalle disgrazie del povero emigrato di “Pane e cioccolata” di Franco Brusati sino al celebre film a episodi di Dino Risi, “I mostri” - e chissà forse persino col teatro di Antonio Rezza. E’ interessante notare come, almeno nel suo esordio, Incani sia riuscito a comunicare sensazioni simili a quelle che può trasmettere un film. L’Italia dei nuovi mostri, di una massa informe di zombie romeriani che invadono i centri commerciali, di egoisti pronti a scagliarsi contro i più deboli senza pietà, osannando i ricchi uomini di successo presi come modello irraggiungibile.
Incani nasce nel 1983 a Buggerru, piccolo paese sardo con un storia significativa di lotta operaia che ha trovato il suo tragico culmine il 4 settembre 1904 con l'Eccidio di Buggerru, dove tre minatori furono uccisi, durante uno sciopero contro le disumane condizioni di lavoro, dalla violenta repressione dell'esercito venuto in soccorso dei proprietari francesi della miniera. Mi piace pensare, e mi sembra probabile, che questo abbia influito sulla sua formazione e mentalità.
Cresce ascoltando i più celebri cantautori italiani, da Fabrizio De André a Lucio Battisti, da Lucio Dalla a Francesco De Gregori sino a Franco Battiato per poi divenire un ascoltatore onnivoro che parte dalla psichedelia, al folk psichedelico sino giungere all'elettronica, alle bizzarrie dei Residents, alle dissonanze dei Can, al re dei freak Frank Zappa, al dubstep e tanto altro. Il risultato di questi ascolti compulsivi è un bizzarro mix dissonante dove tutte queste influenze sono presenti ma allo stesso tempo celate in sonorità del tutto nuove.
La sua carriera inizia con gli Adharma, band attiva tra il 2000 e il 2008 con cui pubblica un Ep, Risvegli (2005), e un Lp pubblicato quattro anni dopo lo scioglimento della band, Mano ai pulsanti (2012). Questo trio sardo di stanza a Bologna - formato oltre che da Jacopo Incani (voce, chitarra) anche da Simone Ena (batteria) e Riccardo Aresti (basso) - mostra chiaramente le influenze del rock alternativo dei Verdena, con un basso potente e distorto (la title track, “L’idiota”) e una chitarra a ricucirsi spazi. Alt-rock, noise-rock, forse persino post-punk, per un lavoro di appena ventisei minuti che mostra già potenzialità enormi e una certa alterità rispetto alle band coeve.
Nel 2007 registrano Mano ai pulsanti, ma la band si scioglie e l’Lp viene pubblicato solo nel 2012. Fosse stato edito nel 2007, avrebbe in parte preannunciato l’esordio del progetto solista di Incani, “La macarena su Roma”. Mano ai pulsanti è un concept di rock alternativo sugli effetti sulla popolazione della Tv, vista per quello che è, uno strumento narcotizzante le coscienze, creatrice di falsi bisogni e di false paure, capace di alterare la percezione della realtà, che ci rende capaci di odiare chi è più debole di noi e amare gli iper-integrati nel sistema, ben prezzolati. Alcune sonorità sono più vicine al progressive rispetto ai lavori di due anni prima, in particolare nelle tastiere, nel piano e nei synth di “La gabbia nel mare”, un caleidoscopio di ritmi e generi diviso in tre parti. Come raccontano loro stessi, il disco è “un atto di resistenza che non può che essere interno al potere, al sistema, al quale ci si vuole, per quanto possibile, contrapporre. Per queste ragioni si è scelto di utilizzare lo stesso linguaggio, gli stessi termini, lo stesso immaginario, gli stessi slogan mediatici, per rovesciarne, in modo quanto più violentemente critico, il senso”.
L'attività solista di Incani inizia nel 2008 col progetto Iosonouncane. Nel frattempo lavora in un call center, attività che gli fa vedere da vicino le tristi condizioni di una generazione piena di potenzialità sprecate in un lavoro inutile e umiliante. Decide quindi di licenziarsi per provare a seguire le sue vere aspirazioni esordendo con La Macarena su Roma (2010), formidabile spaccato dell’Italia contemporanea, crudo, realistico e preveggente, esperimento a metà tra musica, cinema e teatro. La marcia su Roma del nuovo millennio non sarà realizzata da lugubri picchiatori vestiti di nero, ma da masse danzanti e sorridenti di uomini allevati dalle tv private, imbevuti di slogan pubblicitari e tormentoni estivi, imboniti da urlatori televisivi e da giornali di gossip. Ne viene fuori un calderone organizzato di pseudocultura pop (“Pinne, fucili e occhiali”, “Pan di stelle molto buoni”, le urla di Sgarbi e altri mostri da salotti tv), cori decerebrati da stadio, siglette di trasmissioni Tv, orrori da analfabetismo di ritorno (“Se saprei come fare”), elezioni vissute come rese dei conti, voglia di vendetta senza alcuna vergogna di pensieri razzisti (“Bevi negro!”), il tutto prendendo spunto da episodi di cronaca che diventano metafore profonde di una realtà percepita in modo distorto.
La figura che resiste a questa ondata di sagre di ogni tipo, di aperitivi sulla spiaggia, balli di gruppo, tornei, cacce al tesoro che si ripetono ogni anni sempre uguali (“Il corpo del reato”) diventa fondamentale ma assolutamente impotente di fronte all’avanzare senza fine di questa orrida marcia trionfale. Dodici brani che sono un lungo concept-album, tra musica e teatro che descrivono l’Italia peggiore, con tecniche narrative totalmente alternative. Un modo per esorcizzare la realtà, con un canto isterico e iper-rapido, con parole che si inseguono velocemente come un cantautorato accelerato con ritmi compulsivi.
“Summer on a spiaggia affollata” (omaggio a Battiato) apre con l'episodio di cronaca di un immigrato annegato in spiaggia per rendere chiaramente la mutazione antropologica italiana - che Pasolini aveva già denunciato - ormai totalmente realizzata grazie alla nuova generazione di odiatori, eroi da tastiera social, allevati dai talk-show più regressivi. Un barcone di immigrati è alla deriva su una spiaggia piena di italiani in vacanza, tutti sono disgustati e pensano in primis a farsi riprendere dalla tv appena arrivata per salutare i propri amici, sino alle urla che augurano ai bambini di colore di morire annegati. Un delirio distopico che sarebbe piaciuto a Frank Zappa e al capitano (quello vero) Don Vliet. L’odio si scaglia sempre verso il diverso e il più debole (“Il boogie dei piedi”), verso chi non si riconosce in questa orda. Il non allineato non può che essere un emarginato solitario, accusato dagli integrati di essere solo “mani strappate all’Enalotto, mani strappate al voto di scambio”. In “Il corpo del reato” un incidente in una strada di provincia, con la morte di uno dei due protagonisti, diviene il momento tristissimo di riflessione sull’inutilità dei mille obblighi ai quali la società ci mette di fronte ogni giorno, arrivando a capire che “quelli come te sono stati vivi solo quando son morti”, riuscendo ad avere dinanzi la verità (quindi filosoficamente essere vivi) solo quando è troppo tardi.
Alieno in una moltitudine di danzatori di Macarena, Incani non riesce a trovare simili neppure dove in teoria dovrebbero esserci, cioè nei partiti di sinistra (“I superstiti”). In questo piccolo gioiello di stratificazioni vocali persino un redivivo Antonio Gramsci è un lavoratore di call center depresso in cerca di un nuovo lavoro, metafora di quanta umanità sia sprecata in lavori inutili sottopagati o negli altrettanto inutili invii di curriculum. Una puzza insopportabile (sia gli uomini-zombie ben integrati che i sottomessi inconsapevoli) avvolge i superstiti, ormai costretti solo a ritrovarsi in noiosi aperitivi, cioè una forma di aggregazione assolutamente anonima. E’ il sesto stato che si manifesta dopo il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo e il quinto Stato degli apolidi in patria. “Il sesto stato” è il brano più tipicamente psichedelico, tra Syd Barrett e il pop lisergico dei Byrds o dei Beatles, inno alla generazione di call center, disoccupati, giovani senza diritti e soprattutto senza futuro.
Ma l'invasione è inarrestabile e raggiunge il suo culmine nella title track, nove minuti con percussioni che fanno sottofondo alle urla dei nuovi maestri, dei falsi imbonitori buoni per tutte le stagioni, urlatori demagoghi responsabili primi della devoluzione e della narcosi del pensiero. I danzatori di Macarena invadono Roma in ogni suo spazio, senza tollerare alcuna diversità. Anche se Incani urla “Io sto benissimo da solo, non ho mai fatto del male a una mosca, i miei vicini sanno a malapena che esisto”, questo non è tollerato. Anche se schiacciato da un lavoro che lo fa tornare stremato a casa sognando di buttarsi su un divano a guardare la tv nel suo piccolo monolocale, pensando a chi vincerà le gare thrash di Paolo Bonolis, mostra comunque una minima diversità. Colpisce il flusso di pensiero del protagonista buttato esausto sul divano a guardare la tv, un flusso che non ha nulla di automono e personale ma è totalmente in balia delle immagini e delle parole teletrasmesse. Ogni frase della tv crea un'opinione differente, totalmente scollegata dalla precedente, una sorta di zapping di pensieri che provoca pseudo-opinioni passive (cioè non figlie di un pensiero libero e autonomo) e regressive, facendo retrocedere lo spettatore alla stregua di un pappagallo ammaestrato.
La Macarena giunge sino al portone di casa inarrestabile. “Cantano tutti, ballano tutti, ridono tutti, lo psicologo, le vallette, il meteorologo, i giornalisti, i calciatori, il consigliere comunale, si passano il microfono di mano in mano”, questi zombie pretendono l'omologazione assoluta. Bisogna arrendersi o resistere nella propria solitudine? Incani ricorda le parole di Gaber, “La libertà è partecipazione”. Ma la partecipazione concessa dalle tv è quella del televoto che regala la falsa percezione consolatoria che "oggi decido io". Ecco il motivetto della trasmissione "La Corrida" che fa intendere quanta la partecipazione concessa sia solo una baracconata, una presa in giro.
Il finale “Giugno”, dalle atmosfere dream-pop decadenti, lascia intendere un Incani vecchio e senza denti ormai omologato, che ricorda triste quei giorni e finalmente decide di licenziarsi dal suo inutile lavoro.
Un album duro e coraggioso, un caso unico della discografia italiana. Seguono circa 250 concerti in due anni, la pubblicazione del singolo “Le sirene di luglio” (2012), un delirante folk destrutturato, e ancora tre anni di lavoro per la registrazione di DIE (2015). Giocando con la parola, interpretabile sia come giorno sia come morire, Incani realizza il suo lavoro musicalmente più maturo, evolvendosi verso atmosfere totalmente differenti. Apparentemente è un disco meno politico, ma lo è solo in modo meno sfacciato. Se politica c’è, deve intendersi come creazione di un nuovo linguaggio e un nuovo suono che a posteriori potranno intendersi come atto di diversità rispetto alla contemporaneità, quindi conseguentemente un atto politico.
I ritmi ossessivi e l'elettronica stratificata di “Tanca” sono il suo capolavoro, vertigine di modernità associata a tribalismo, talmente densa di suoni da divenire raggelante. "Tanca" ribalta radicalmente la prospettiva di La macarena su Roma, cercando di interpretare la realtà non dalla donna italiana sdraiata al sole ma dall'immigrato che giunge esausto sulla spiaggia. Già la cover è esplicativa. Una spiaggia dorata e un cielo azzurro; sullo sfondo in lontananza forse una donna sdraiata. In alto però incombe la scritta DIE, interpretabile sia come morte che come giornata passata al mare, a creare una forte ambiguità tra immagine e testo. I testi sono interpretabili come la visione di immigrato che giunge, ormai prossimo alla morte ("falce viene, si trascina nel sale") in una spiaggia piena di famiglie in vacanza sperando di salvarsi, ma troverà solo nuovi tipi di sofferenza ("fame ha trovato fame"). E’ di certo uno dei momenti più alti della discografia italiana degli ultimi anni, sia nei termini di una produzione davvero accuratissima che di innovazione dei suoni. I riferimenti al cantautorato nazionale stavolta sono più palesi, ma in brani come “Buio” - sperimento tra new age lenta e lisergica e ambient che s'intrecciano e cambiano continuamente - e “Carne”, la distanza con la tradizione cantautorale è grande. In “Stormi” e “Paesaggio”, invece, il legame con Battisti appare più lampante. Chiude il cerchio “Mandria”, ripresa parziale di “Tanca”, una danza elettronica ripetitiva e ipnotica.
Ormai Incani è un protagonista dell'underground italiano, rispettato sia dal pubblico che dalla critica. Nel 2016 collabora con i Verdena, una delle sue band italiane preferite, in Split Ep. Due brani di Incani suonati dal gruppo e viceversa. I Verdena stravolgono il capolavoro “Tanca” con le durezza delle chitarre, donando una vita nuova al brano, con un finale quasi progressivo. “Carne” diventa quasi un brano scritto dai Verdena degli esordi, urlato e rabbioso. Incani fa l'esatto opposto con due brani tratti da "Endkadenz", aggiungendo una matrice elettronica dove prima la chitarra era più presente. Questo interessante esperimento chiarisce come il legame tra i due progetti sia in effetti più stretto di quanto si potesse immaginare a un primo ascolto.
Il 2018 è l'anno in cui si approfondisce la collaborazione di Incani con Paolo Angeli in un tour in duo che li ha visti girare l'italia da Nord a Sud.
Nel 2021 pubblica IRA, rinviato di un anno a causa della pandemia Covid. Diciassette brani lunghi, quasi sempre a ridosso dei dieci minuti, con una voce che scompare per diventare strumento tra gli strumenti. Dal bombardamento di parole dell'esordio, alla ricerca di testi poetici di DIE, alla pseudo-afasia di oggi, il cambiamento è assoluto. Il linguaggio diventa incomprensibile per trasformarsi in una chimerica commistione di spagnolo, francese, inglese, arabo e chissà cos’altro, come a creare una non-lingua. Emerge chiara una sfiducia nel senso stesso delle parole, nella possibilità che queste possano comunicare davvero qualcosa nella società odierna.
Incani ha ormai abbandonato ogni legame col cantautorato, sempre presente in vari brani di DIE, per portare definitivamente a compimento le intuizioni di un brano come “Tanca”. Una quantità impressionante di stimoli sonori che sembrano un manuale d'istruzioni per musicisti del futuro, con un canto che cambia registro continuamente mantenendo - come unico comune denominatore - la sua incomprensibilità.
Difficile citare un brano piuttosto che un altro, tanto è il materiale presente in questo Lp enciclopedico. Elettronica e percussioni avvolgono una quantità impressionanti di riferimenti, tanto ampi che è possibile coglierli solo dopo svariati ascolti. Dal canto che rimanda a Robert Wyatt di “Petrole” alle imponenti cattedrali elettroniche tra Swans e Ben Frost (ad esempio lo straordinario finale ipercaotico di “Hajar”), sino ai riferimenti ai Radiohead più sperimentali ("Piel"). Ecco, IRA potrebbe essere per l’Italia quello che sono stati “Kid A” o “Amnesiac” per la scena britannica. La voce sospirata di “Ashes” ricorda quella bizzarra del capolavoro “Not Available” dei Residents, come anche il suono dei synth che poi si perdono in una colossale danza da comunità hippie. Le percussioni hanno un ruolo fondamentale in vari brani e tra questi spicca senz'altro "Hajar", tribalismo epilettico squarciato da sciabolate di synth. Influenze mediorientali sono spesso identificabili, per esempio nella voce e nei ritmi di “Foule”, connubio di suoni desertici e elettronica. Crudo e ossessivo in vari momenti, nei battiti elettronici infernali di “Prison”, da cui nasce inatteso il momento più melodico del disco, quasi un inno di libertà. Non mancano momenti chitarristici, ad esempio in “Sangre”, forse figlio dell'ascolto di Jon Hassell.
Ciò che emerge e che colpisce è la meticolosità evidente in ogni tipo di suono, che appare stratificato, modificato e infine scelto dopo ricerche maniacali. Incani sembra quindi distruggere ogni concetto di improvvisazione. Inoltre IRA è senz’altro un album prettamente politico nel senso più alto del termine. Lo è in quanto si pone come totale alterità al mondo presente, sia per quanto riguarda la durata, la sua struttura, il suo abbattere ogni frontiera linguistica nell’epoca del bombardamento unilaterale di migliaia di parole insignificanti (tv, social). In un mondo dove tutto è opinione e dove la verità è sepolta da un pezzo, Incani rinuncia a far parte di questo coro, per indicare una nuova strada che, se venisse percorsa, potrebbe gettare i semi per una nuova stagione musicale.
Nel 2023 pubblica le registarzione del live dle 2018 con Paolo Angeli. Jalitah (nome di un arcipelago di piccole isole tra la Sardegna e la Tunisia) raccoglie le esibizioni live del 2018 del duo in un perfetto mix delle due esperienze soliste.
Da questa fratellanza e da questo rispetto reciproco non poteva che nascere un equilibrio perfetto dove l'improvvisazione può trasformarsi improvvisamente in canzone per poi diventare musica tradizionale sarda e sfociare lentamente verso la pura avanguardia. E’ un equilibrio miracoloso quello che traspira dai cinquantadue minuti di registrazione, dalle nuove versioni di brani storici di Incani (“Summer on a spiaggia affollata”, “Carne”) sino all’introduzione del brano iniziale “Zeidae”, fantastico connubio di rock d'avanguardia con sentori kraut e odori della terra sarda.
Se un legame stretto col rock occidentale c’è forse è quello più sperimentale degli anni 70, quello tedesco “kraut” che sembra rivivere in qualcosa di “Sela” o “Banco delle sentinelle” che possono ricordare le brevi sperimentazioni del leggendario terzo album dei Faust. Live coraggioso e pubblicazione che colma un vuoto, quello della memoria di una delle collaborazioni e delle esperienze live italiane più importanti degli ultimi quindici anni.
Qui noi cadiamo verso il fondo gelido testimonia due anni di concerti, dal 2021 al 2022, segue l’evoluzione di IRA e si allontana il più possibile dall'industria della musica dal vivo. Dopo aver preso parte nel mondo (prima l’uomo italiano e poi l'immigrato) Incani sposta il proprio punto di osservazione verso l’alto, dove si è più soli possibili. I live di Incani sono quindi imprevedibili, alieni all’idea troppo frequente e francamente ben poco artistica di karaoke di massa che la musica mainstream live odierna sembra essere diventata. La neolingua di Incani impedisce ogni forma di canto da parte degli spettatori, costringendo all'attenzione assoluta verso la musica, che al contempo non è mai esattamente come ci si aspetta.
Di certo sono presenti i suoi brani più celebri, come “Ashes”, “Tanca”, “Prison” o “Hajar”, ma fondamentalmente i live di Iosonouncane hanno l'obiettivo dell'imprevedibilità e del disorientamento, per questo le tracce più interessanti sono quelle non presenti nella discografia ufficiale (ben undici su diciotto) e apparentemente improvvisati come “Trombe”, con urli di fiati sulle consuete basi di synth, “Bestas” con le sue percussioni ripetitive e stilettate sintetiche.
La band di Incani cerca il trip, il viaggio interiore dove sia possibile essere altrove, da un'altra parte rispetto al proprio corpo. Non mancano anche possibili citazioni, forse Klaus Schulze in “Voci” ad esempio, ma ciò che colpisce in fondo è la costante sensazione di una materia sonora in divenire, che dà sempre sensazioni diverse ad ascolto; in fin dei conti i live di Incani sono una lunga caduta dall'alto verso il gelo della consapevolezza. E non è poco.
Iosonouncane, sardo come Berlinguer, sicuramente vicino a lui sia umanamente che culturalmente, non poteva che essere il musicista più adatto per la colonna sonora di La grande ambizione (2024), soundtrack che fa parte di una serie di nuove pubblicazioni intitolate “Il suono attraversato” che vedranno la luce prossimamente e che raccoglieranno la musica per cinema e teatro di Incani. Il primo numero di questa collana sarà proprio "La grande ambizione” a cui seguirà nel 2025 la colonna sonora del documentario “Lirica Ucraina” della bravissima giornalista Francesca Mannocchi.
Incani si mette a disposizione dell’opera di Andrea Segre cercando di proseguire il percorso intrapreso nella sua discografia. I suoni di IRA sono infatti ancora presenti seppur messi al servizio del formato audio-visivo, con i limiti e le regole che questo impone. Si sente però l’impegno e la vicinanza umana che Incani avrà sentito nella scrittura di queste composizioni, quasi come se stesse scrivendo la musica per un film dedicato a un fratello, più che a un uomo politico morto quando lui aveva appena un anno.
Il tema centrale ha la caratteristica di far venire alla mente la canzone popolare (“1973”, l’anno del colpo di stato americano in Cile che porta al potere Pinochet ai danni di Allende), associando una certa solennità come se la musica fosse dedicata a un personaggio del popolo ma allo stesso tempo caricato di una simbologia tale da essere trasfigurato in eroe. Musica popolare e musica classica del 900 quindi sembrano sovrapporsi, come tante volte hanno fatto. Le intuizioni di IRA rimangano ancora fondamentali, dai ricordi sofferti della madre di Berlinguer, morta quando lui era ancora un bambino (“Madre”) ai ricordi della strage neofascista di piazza della Loggia in cui i synth si sovrappongono al tema principale.
I viaggi nei paesi apparentemente amici del blocco di Varsavia vengono sottolineati con una musica particolarmente claustrofobica come nell’attentato in Bulgaria (“Non è stato un attentato”) o nel viaggio in URSS (“URSS”), nel dialogo con Breznev o nelle scene notturne di Mosca (“Mosca di notte”). Il tema centrale torna in “Il discorso al Cremlino”, storico discorso in cui Berlinguer ebbe il coraggio di ribadire, proprio al Cremlino, la distanza profonda tra il comunismo democratico italiano e quello totalitario russo. E’ bizzarro che questo senso di oppressione si ripresenti solo nella scena dove è presente il presidente Andreotti (“Giulio il collezionista"), l’alfiere dei rivali di Mosca.
Andrea Segre sottolinea chiaramente i passaggi storici che caratterizzarono la vita di Berlinguer. Dal 34% delle elezioni politiche del 1976 che aprì al biennio del compromesso storico e fecero immaginare una collaborazione tra Moro e Berlinguer, cioè tra DC e PCI. Le speranze furono però stroncate dal rapimento di Aldo Moro (“Il rapimento di Moro”) con una musica che riprende le atmosfere del Cremlino con finale di synth in stile IRA.
“Il funerale di Enrico” chiude l’album: cantato da Daniela Pes che riprende il tema centrale, il brano fa da colonna sonora al funerale di Berlinguer e diventa una lamento funebre tragico che, grazie alle straordinarie immagini d’archivio, dà il senso della mutazione antropologica avvenuta in Italia in appena quarant’anni, dove non sembra essersi conclusa la storia umana di Berlinguer, ma l'anima stessa di una nazione intera.
IOSONOUNCANE | |
La Macarena su Roma (Trovarobato, 2010) | |
DIE (Trovarobato, 2015) | |
Split Ep (con i Verdena, Black Out, 2016) | |
IRA (Trovarobato, 2021) | |
Jalitah(con Paolo Angeli,Tanca Records, 2023) | |
Qui noi cadiamo verso il fondo gelido (Tanca Records, 2023) | |
Berlinguer - La grande ambizione OST (Sony, Tanca, 2024) | |
ADHARMA | |
RisvegliEp (Jestrai Records, 2005) | |
Mano ai pulsanti (Trovarobato, 2012) |