Manuel Agnelli - Celebrazioni, disillusioni e piccole iene

intervista di Claudio Lancia

Stanno per prendere il via le celebrazioni per il ventennale di “Ballate per piccole iene”, che si concretizzeranno nella ripubblicazione del disco e in un tour che porterà sul palco la formazione degli Afterhours che incise l'album nel 2005. In una lunga chiacchierata con Manuel Agnelli partiamo da “Ballate” per poi fare il punto sui numerosi progetti che vedono attualmente protagonista il leader della band milanese. Manuel racconta i tanti ruoli che sta interpretando in questi anni, fra musica, teatro, radio e televisione, rivelandoci le sue verità, senza peli sulla lingua, nel classico stile che da sempre lo contraddistingue...

Le prove del tour

Ciao Manuel, anzitutto grazie per la disponibilità. Mi piacerebbe scandagliare i tanti volti della tua complessa personalità artistica, i numerosi progetti nei quali attualmente sei impegnato. Ma prima partirei con il motivo principale che oggi ci ha fatto incontrare: le celebrazioni per il ventennale di “Ballate per piccole iene”, il disco più cupo e crudo degli Afterhours, celebrazioni che prevedono la ripubblicazione dell’album e un tour estivo che proporrà sul palco la stessa formazione che lo registrò. Oltre a te, ci saranno Andrea Viti, Dario Ciffo e Giorgio Prette. Raccontaci c
ome stanno procedendo le prove, com’è stato tornare a suonare insieme dopo tutto questo tempo e come state allestendo lo spettacolo, per quello che puoi anticiparci…
Ciao Claudio, guarda, devo dirti che c’è un’energia speciale. Dopo che ci siamo incontrati e abbiamo deciso di realizzare questa operazione, è partita una vera e propria ondata di entusiasmo. Sentiamo finalmente di stare chiudendo dei cerchi, di risolvere problemi e incomprensioni, anche personali, seguiti a vicende che ormai appartengono al passato ma che erano rimaste un po’ in sospeso. Le prove stanno andando benissimo, anche perché abbiamo scelto – creando anche qualche problemino al nostro management - di svolgerle, a Milano, nei locali di quella che una volta era la sede del Jungle Sound, studi di registrazione e sale prova dove una grossa fetta della scena milanese dagli anni Novanta a metà degli anni Duemila si radunava ed è cresciuta. All’epoca, giusto per citare qualche nome, c’eravamo noi, i Casino Royale, i La Crus, Cristina Donà, gli Scisma, i Bluvertigo, i Ritmo Tribale. Anche parte della prima scena rap della città è passata di lì.

Ai Jungle Sound erano di casa anche numerosi musicisti appartenenti al giro mainstream…
Sì, ci potevi incontrare musicisti come Enrico Ruggeri, Marco Masini, gli 883, Paola e Chiara, c’era un’incredibile commistione di generi. In un contesto simile, gli Afterhours ebbero l’opportunità di crescere tantissimo, assorbendo tutto come spugne, anche semplicemente “spiando” i musicisti più bravi, “rubando” le equalizzazioni, osservando i settaggi degli amplificatori dei chitarristi che allora erano molto più famosi di noi. Jungle Sound per noi è un posto del cuore, e anche se adesso non è più una sala prove ma una sede dove si realizzano produzioni video, vi abbiamo allestito un vero e proprio studio dove abbiamo organizzato le prove. Ed è stata una botta notevole, perché ricominciare quest’avventura ritrovandosi in un luogo del genere, che per noi ha un significato speciale, beh, è stato proprio una figata. Quindi, le prove sono andate molto bene dal punto di vista musicale, e ancor di più dal punto di vista emotivo.

Ogni qualvolta si è profilata una separazione nel mondo Afterhours, quasi sempre si è trattato di scelte personali compiute da chi ha deciso di andare via

Andrea, Dario e Giorgio immagino siano gasatissimi!
Tutti ci tengono in maniera veramente speciale, e questa cosa si sente, si percepisce in maniera netta. Per alcuni di loro magari rappresenta anche una grande occasione di riscatto. Ma ci tengo a sottolineare che ogniqualvolta si è profilata una separazione nel mondo Afterhours, quasi sempre si è trattato di scelte personali compiute da chi ha deciso di andare via. Alla fine io ho insistito affinché si allontanassero giusto un paio di persone su venti in 40 anni, chiaramente non posso dirti di chi si tratta. Alcuni mediamente sono andati via dopo 10-15 anni di militanza nel gruppo, Giorgio Prette addirittura dopo 25 anni di permanenza, quindi non sono stati dei colpi di fulmine. E poi qualsiasi musicista dopo tanti anni ha tutto il diritto di cambiare, indipendentemente dai risultati che poi possono arrivare. Come ti dicevo prima, con la formazione che registrò “Ballate per piccole iene” c’erano delle incomprensioni personali che andavano risolte da tempo: questa è l’occasione giusta per farlo.

L’Italia è stata sempre snobbata, sì, ma dagli italiani! 

Il cast del disco

“Ballate per piccole iene” fu co-prodotto da te e Greg Dulli, leader di Afghan Whigs e Twilight Singers, il quale partecipò anche alle registrazioni. Ma non tutti sanno che l‘album vanta la collaborazione di altre due eccellenze internazionali: il missaggio di sei brani venne realizzato da John Parish (già collaboratore di PJ Harvey) mentre Hugo Race (chitarrista nei Bad Seeds di Nick Cave) è alla chitarra slide nella title track. Come fu possibile avere collaboratori di questa caratura, in un momento storico nel quale l’Italia era piuttosto snobbata sul palcoscenico musicale internazionale?
Ma guarda che in realtà l’Italia è stata sempre snobbata, sì, ma dagli italiani! Non certo dagli stranieri. La verità è che quando siamo stati in tour, sia in Europa che negli Stati Uniti, e devo dire soprattutto in Inghilterra, siamo sempre stati trattati con grandissimo rispetto, e questo è accaduto anche a molte altre band italiane che hanno compiuto le nostre stesse esperienze. Siamo noi italiani che abbiamo dei preconcetti. E‘ vero che il mercato anglosassone è protezionista, nel senso che protegge le proprie produzioni, e poi che hanno un marketing fortissimo, che dominano il mondo dal punto di vista dell’informazione e della distribuzione della musica, però non hanno preconcetti: per loro se sei bravo, sei bravo. Collaborare con musicisti stranieri non è così difficile: l’abbiamo fatto tantissime volte. Greg Dulli e Mark Lanegan per me sono stati due grandi punti di riferimento, così come John Parish. Io personalmente ho suonato con tanti artisti molto importanti, penso ad esempio a Stewart Copeland, a Patti Smith, ad Adrian Belew, giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Molti di loro in quegli anni scoprivano che in Italia c’erano musicisti dotati di grande talento, e molti di loro se li portarono persino nelle proprie band. John Parish da anni collabora con musicisti italiani, per esempio Giorgia Poli, la bassista degli Scisma, suona spesso con lui, io stesso ho suonato con lui. Steve Wynn, tanto per fare un altro esempio, è un mio carissimo amico, abbiamo collaborato e suonato insieme mille volte, Giovanni Ferrario ha suonato con PJ Harvey, così come Enrico Gabrielli e Alessandro “Asso” Stefana, ma gli esempi sono davvero moltissimi. Per quanto riguarda noi Afterhours, non fu difficile, fu grazie a una serie di contatti: facemmo ascoltare dei pezzi a John Parish, grazie anche ai buoni uffici di Greg Dulli. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto lavorare con lui, perché lo apprezzavo molto come produttore, trovavo esaltante quello che aveva fatto con PJ Harvey e con gli Eels. Parish si occupò del mixaggio di alcune tracce di “Ballate per piccole iene“, e lo fece con grandissimo entusiasmo, in qualche caso persino risolvendo dei problemi, ad esempio perché noi in quel momento non sapevamo che direzione dare ad alcune canzoni.

Sono gli italiani a essere dei provinciali: pensano sempre di essere inferiori e trattano i musicisti italiani da inferiori, rispetto ai colleghi stranieri 

Di Hugo Race invece che mi dici?
Con Hugo Race ci conosciamo da una trentina d’anni, perché lui ha vissuto per un periodo in Sicilia, ed era inserito all’interno di un circuito di persone che conoscevo bene, per cui fu naturale anche con lui arrivare a chiedergli di fare qualcosa nel nostro disco. Hugo è un musicista straordinario. E’ sempre stato molto nomade, e questo forse non gli ha permesso di raggiungere la fama che avrebbe meritato, ma è una persona ricca di spunti creativi. Esiste tuttora un circuito che collega i musicisti italiani con l’estero. Tanto per farti un altro esempio, di recente ho avuto occasione di conoscere Alessandro Cortini che, oltre all’apprezzabile carriera solista, suona da anni nei Nine Inch Nails. Ce ne sono tantissimi di musicisti in gamba in questo paese, e sono gli italiani a essere dei provinciali: pensano sempre di essere inferiori e trattano i musicisti connazionali da inferiori, rispetto ai colleghi stranieri.

La ristampa di “Ballate per piccole iene“ contiene un poster con le quattro copertine originali, foto scattate da Guido Harari…
Per quelle session fotografiche pensammo proprio di prendere il migliore. Eravamo esaltati dal fatto che ci piaceva tantissimo come stava uscendo l’album, album che trovava il consenso anche degli altri collaboratori che citavi prima, Greg, John e Hugo, tutti davvero entusiasti del disco. Addirittura John mi portò a masterizzare l’album a Londra, perché ci teneva che l’album suonasse molto bene. Per suggellare l’operazione con un artwork all’altezza puntammo su quello che ritenevamo il miglior fotografo “rock” sulla piazza. E restammo molto soddisfatti del risultato finale. La scelta di includere il poster nella riedizione di “Ballate” ne è la più chiara dimostrazione.

Fino al 1997 eravamo considerati “bravi ma sfigati”, poi, per tutto un certo tipo di ambiente, eravamo diventati il gruppo più cool del momento

Ironia e disillusione

Al momento di comporre “Ballate” eri riconosciuto come il leader di un’intera scena, uno dei 2-3 simboli dell’età d’oro del rock alternativo italiano, quello degli anni Novanta. Eppure si tratta di un lavoro nel quale scompare completamente l’ironia dei primi album degli Afterhours, per lasciare spazio a un senso di vuoto, di sconfitta, di rassegnazione. Era lo stato in cui ti trovavi in quel periodo? Sembra come se tu non riuscissi a godere a pieno del successo e dello status conseguito all’interno del circuito indipendente…
In realtà, se ci fai caso, già con l’album precedente, “Quello che non c’è”, l’ironia era un po’ sparita. Avevamo avuto un periodo eccezionale dal 1997 in avanti. Anche prima era stato tutto molto avventuroso, ma dal 1997 per noi, dopo la pubblicazione di “Hai paura del buio?” l’atmosfera intorno a noi cambiò radicalmente. Fino al 1997 eravamo considerati “bravi ma sfigati”, poi, per tutto un certo tipo di ambiente, eravamo diventati il gruppo più cool del momento. Riempivamo i locali, tutti ci volevano, ci siamo anche divertiti tantissimo, e devo dire che c’era una bellissima sintonia con il pubblico, perché avevamo la stessa età di quelli che venivano a vederci, eravamo coetanei, quindi stavamo vivendo la stessa cosa, nelle nostre canzoni raccontavamo esperienze che erano le medesime del nostro pubblico, era un momento magico.

Quindi? Sembra tutto bellissimo…
A partire da quel momento, abbiamo iniziato a subire un po’ di pressioni esterne, pressioni che intendevamo rifiutare. Si trattava di pressioni per “ottimizzare il lavoro”, per cercare di comporre dei singoli in grado di ampliare il nostro livello di popolarità. Tutto questo fu abbastanza spiazzante per noi. Vedi, da una parte volevamo dimostrare di non essere dei musicisti che si svegliano la mattina e pensano di essere dei geni o dei poeti, aspettandosi da parte di tutti riconoscimenti e favori. No, noi volevamo dimostrare di essere all’altezza di qualsiasi sfida, e per noi la sfida di scrivere delle canzoni che potessero essere percepite come dei “singoli”, come potenziali hit del circuito indipendente, beh, era un grande stimolo creativo. Non uno stimolo commerciale, come in realtà molti potrebbero pensare, ma uno stimolo creativo, un modo per metterci alla prova, per verificare sul campo cosa eravamo in grado di costruire. Però il nostro obiettivo doveva rimanere quello di riuscire a fare quello che volevamo, quello che preferivamo, e ritenevamo di meritare tale possibilità dopo aver compiuto una gavetta infinita. Noi rifiutavamo il ghetto, ecco, questa è una cosa che mi ha sempre contraddistinto, non trovare la scusa del “la gente non mi capisce”, oppure de “il mercato non ci comprende”. Lo spirito che ci guidava era piuttosto qualcosa del tipo: facciamole le cose belle, e che siano per tutti, portiamo la nostra musica in giro, ovunque, rimanendo chiaramente noi stessi. Per cui quella situazione fu destabilizzante.

Non eravamo più dei disturbatori, non provocavamo più, non avevamo più quel ruolo, e questa cosa ci spiazzò, perché tutto questo consenso, che all’inizio era stato meraviglioso, si era trasformato in celebrazione a tutti i costi

Poi cosa non ha funzionato?

C’è un ulteriore elemento da considerare: noi eravamo nati come un gruppo disturbante, un gruppo che saliva sul palco con vestiti da bambine, con le gambe pelose, a suonare “Germi” o “Dea”, pezzi che erano deflagranti, soprattutto per l’Italia di quel periodo. Pensa che io a un certo punto cominciai a fare arti marziali, come autodifesa, perché ai concerti ci si menava, alcune situazioni diventavano abbastanza estreme. Dal 1997 quella situazione estrema si era trasformata in un trionfo: il pubblico ci adorava, cantavano in coro tutte le canzoni dall’inizio alla fine, ma noi non eravamo più dei disturbatori, non provocavamo più, non avevamo più quel ruolo, e questa cosa ci spiazzò, perché tutto questo consenso, che all’inizio era stato meraviglioso, si era trasformato in celebrazione a tutti i costi. Alle persone non interessava più come stavamo suonando, cosa stavamo suonando, venivano a celebrare, a cantare dall’inizio alla fine, a pogare dall’inizio alla fine, persino sulle ballate. Tutta questa situazione fu straniante, forse non eravamo pronti, dovevamo imparare a gestire certe cose, dovevamo capire come restare noi stessi all’interno di un contesto del genere. Non ti nascondo che ci furono delle tensioni interne, e i dischi che ne seguirono, “Quello che non c’è” nel 2002 e “Ballate per piccole iene” nel 2005, riflettono questa condizione: sono dischi di crisi personale, ma riflettono anche la mancanza di punti di riferimento. Se ricordi, negli anni Novanta il mondo doveva cambiare: era caduto il muro di Berlino, l’Unione Sovietica si era disgregata insieme alla Cortina di Ferro, Ceausescu in Romania era stato deposto, dal 1992 al 1994 c’era stata Mani Pulite, insomma, sembrava che il mondo dovesse finalmente cambiare in meglio. E invece non fu così. Pensa all’immagine di Arafat e Begin che si stringono la mano: la questione palestinese sembrava in via di risoluzione, e invece oggi non si è ancora risolta, anzi... Tutti questi avvenimenti negli anni Novanta ci avevano dato una grande speranza. Invece poi è tutto come sfumato via…

Era diventato un integralismo asfittico, c’erano oramai più regole che nel mainstream... era diventata una scena di fighetti 

E oltrepassata la soglia del Duemila arriva la disillusione…
Sì, dopo “Non è per sempre”, che uscì nel 1999 e resta ancora abbastanza legato all’ironia dei primi album di cui parli, “Quello che non c’è” e “Ballate per piccole iene” erano dischi di disillusione, sia disillusione nei confronti del mondo che ci circondava, sia disillusione personale. Disillusione nei confronti della scena alternativa che, sai, era sempre stata integralista. Secondo me, un po’ di integralismo ci vuole, ma quello era diventato un integralismo asfittico, c’erano ormai più regole che nel mainstream: era vietato fare quello, era vietato dire quell’altro, era vietato suonare in un certo modo, vestirsi in un certo modo, insomma, era diventata una scena di fighetti, di lobbisti che avevano il proprio “club” e volevano mantenerne il controllo, per cui noi non ci ritrovavamo più in quel contesto che era ormai radicalmente mutato. Negli anni Ottanta e Novanta avevamo contribuito a costruire una scena che era vera, un circuito che comprendeva decine di festival, centinaia di live club, migliaia e migliaia di persone che la seguivano, rendendola una realtà alternativa vera. In quel periodo noi non avevamo bisogno di andare in radio, in televisione o sui giornali, perché la scena esisteva comunque, a prescindere, grazie soprattutto a un passaparola pazzesco. Tutto questo si era però gradualmente trasformato in un “clubbino” esclusivo, di persone che in realtà non avevano capito lo spirito, non solo musicale, ma proprio lo spirito culturale di tutto quello che era successo prima. La cultura è anzi tutto comunicazione, l’arte è comunicazione. Comunicare, saperlo fare in un certo modo, è importante. Noi della nostra generazione ci siamo sporcati le mani un po’ tutti, la generazione successiva no. Forse sarà stata colpa del web: la generazione successiva alla mia ha potuto avere dei riferimenti più precisi, motivo per il quale erano più derivativi. Anche noi cercavamo di imitare i nostri modelli, ma non ci riuscivamo a causa di limitazioni oggettive, anche semplicemente per non poter avere accesso a materiale audio e video. Ma paradossalmente, proprio a causa di questi limiti, eravamo cresciuti in maniera più personale. A quel punto, non riconoscersi più in niente, ritrovarsi in un limbo, ci ha spinto verso direzioni sino allora inesplorate, e ci ha portato a questi due dischi: “Quello che non c’è” e “Ballate per piccole iene”. In più, tieni conto che in quel periodo c’erano situazioni personali molto particolari, anche all’interno delle nostre vite private, tutto questo ovviamente finì dentro quei due album.

Quali Afterhours?

Ti stai riferendo alla line-up che ha inciso e portato in tour “Folfiri” come se fosse quella attuale degli Afterhours, ma in realtà non lo è: la line-up attuale degli Afterhours è quella che suonerà “Ballate per piccole iene”

Vi seguo con affetto da una vita, e sono rimasto legato ai nomi storici che hanno suonato nella band, ma col tempo ho riconosciuto il talento, il carisma, la personalità delle line-up più recenti, imparando ad amare Roberto Dell’Era quanto Andrea Viti, Rodrigo D’Erasmo quanto Dario Ciffo, Fabio Rondanini quanto Giorgio Prette, per non parlare di quello straordinario chitarrista che è Stefano Pilia. Secondo me, e credo anche secondo te, la più recente line-up degli Afterhours, quella che ha inciso “Folfiri o Folfox”, è stata la migliore di sempre del gruppo, almeno dal punto di vista tecnico. Come l’hanno presa i ragazzi quando hanno scoperto che sarebbero stati altri musicisti ad accompagnarti nel tour celebrativo di “Ballate”?
Ti dico la verità: non abbiamo grandi contatti fra noi. Ti stai riferendo alla line- up che ha inciso e portato in tour “Folfiri o Folfox” come se fosse quella attuale degli Afterhours, ma in realtà non lo è: la line-up attuale degli Afterhours è quella che suonerà “Ballate per piccole iene”, perché io voglio che gli Afterhours vivano alla giornata. Quella formazione degli Afterhours era diventata una piccola azienda, un progetto che mi stava togliendo energie, invece di darmene. Non ho iniziato a fare musica per questo motivo. Fra l’altro io in questo momento faccio teatro, faccio la radio, quando voglio faccio la televisione, ogni tanto metto la testa anche nel cinema, e poi ho anche la musica, ma non dipendo, e non voglio dipendere da nessuno di questi ambienti. Ho sempre pensato di fare il musicista per poter fare quello che volevo nella vita, non il contrario. Adesso ci sto riuscendo, per cui per me sarebbe stupido ritrovarmi col mio principale motivo di energia, felicità, vita, ridotto a un progetto dei tanti. E’ per questo motivo che a un certo punto non mi sono più trovato con i musicisti dell’ultima formazione, che saranno pure i migliori di sempre tecnicamente, tutti davvero notevoli, per carità, ma devo anche riconoscere come dal punto di vista creativo ciascuna line-up degli Afterhours ha avuto una personalità molto forte. Probabilmente ciascuna formazione degli Afterhours ha avuto al suo interno dei musicisti che magari non erano fondamentali, motivo per il quale gli Afterhours non sono finiti quando questi musicisti hanno deciso di abbandonare la partita, però erano tutti importanti, tutti hanno portato creatività. Per essere un progetto vivo, gli Afterhours devono vivere alla giornata: è l’unico modo per tirar fuori l’energia necessaria per far andare avanti una band. Ogni band è un grande compromesso, se non c’è quell’energia comune, quel bisogno di fare cose insieme, allora non ha senso. Una band-progetto dove tutti vengono a fare i fighi, un mese all’anno, oppure quando hanno del tempo a disposizione in mezzo ai loro altri ventimila impegni, beh, sai che ti dico? A me non interessa. Sarò un privilegiato, e me lo sono anche guadagnato, ma adesso ho la possibilità di decidere, di avere dei progetti musicali che siano per me energicamente positivi. Anche per questo motivo rifare “Ballate per piccole iene” ha rappresentato l’occasione di riportare gli Afterhours a essere una band. Una band vera. Durerà quanto durerà, potrà essere un mese, sei mesi, un anno, non è questo l’importante, l’importante è che valga la pena dal punto di vista dell’energia che sapremo sprigionare all’interno e all’esterno.

Una band-progetto dove tutti vengono a fare i fighi, un mese all’anno, oppure quando hanno del tempo a disposizione in mezzo ai loro altri ventimila impegni, beh, sai che ti dico? A me non interessa 

Dopo la prima volta che ascoltai “Ballate per piccole iene”, chiamai subito gli amici dell’epoca e dissi loro: dobbiamo assolutamente andare a vedere gli Afterhours, stavolta hanno davvero fatto il loro disco definitivo. Suonavate all’ex Mattatoio, a Testaccio, a Roma, sul palco con voi c’era Greg Dulli, c’erano così tante persone in fila per entrare, non ce lo aspettavamo, e perdemmo le prime 2-3 canzoni. Fu un concerto meraviglioso. Pensavo avreste fatto il botto, il botto vero, e invece gli Afterhours continuarono – secondo me - a restare patrimonio di troppo pochi, un fenomeno grande ma relegato all’underground. Nessuno oltre la nostra bolla conosceva gli After, le canzoni non passavano nelle radio, nonostante alcune risultassero molto radio friendly. Col senno di poi, sinceramente, ritieni che gli Afterhours avrebbero meritato un successo più grande?
Ma no, non è così, alla fine il successo è tutto relativo! Se intendi fare gli stadi, noi non siamo mai stati su quel livello di successo, ma nel nostro ambito, al cambio di millennio, gli Afterhours facevamo duemila-tremila persone e concerto! Eravamo oramai transitati in una situazione che non era più totalmente underground, e se lo era era nella maniera più “larga” possibile. Fra l’altro avevamo già dei cachet sontuosi per quel momento storico e considerato il genere di musica che abbiamo sempre proposto. Quando si parla di successo, occorre tener presente il proprio contesto di riferimento: un conto è avere successo proponendo tormentoni pop, un conto è averlo facendo dei dischi che sono comunque difficili, perché non appartengono a un genere preciso. Noi non siamo metal, non siamo dark, non proponiamo dell’indie vero e proprio, no, gli Afterhours sono sempre stati molto sfuggenti da questo punto di vista, per via del nostro naturale Dna musicale. Abbiamo anche sempre rifiutato certi cliché che riguardano, che so, il maledettismo cosmico, o cose simili, che magari aiutano a farti associare a un contesto di riferimento e che hanno reso grandi o importanti altri gruppi. Eravamo poco etichettabili, ma stavamo già ricevendo dei riconoscimenti pazzeschi, in particolare nel periodo dal 2002-2003 fino al 2010, quando abbiamo avuto un pubblico davvero enorme. Anche se abbiamo avuto alti e bassi, come tutti del resto, la crescita del pubblico è stata costante, e ancora adesso sono sorpresissimo perché non ero preparato a certi risultati: attualmente stiamo avendo delle prevendite impressionanti per il tour in partenza, c’è un amore incredibile nei confronti di questo progetto, di queste canzoni, tenendo conto poi che questa formazione non suonava insieme da vent’anni. Stiamo facendo dei numeri mostruosi.

Se io fossi il giudice

Il tuo ruolo di giudice nel format televisivo "X-Factor" da molti non è stato compreso: c’è chi ti ha considerato persino un traditore. Non vorrei soffermarmi sul tuo ruolo, su quello che hai cercato di fare da quella posizione: per me, e credo anche per i nostri lettori, è tutto molto chiaro, e lo hai ribadito spesso nelle tue dichiarazioni. Voglio invece chiederti: questa esperienza quanto ti ha dato in termini di crescita?
Oggi ho una situazione personale artistica e creativa fantastica, faccio veramente quello che voglio, mi diverto tantissimo, imparo tante cose ancora adesso: la vita mi è cambiata a 50 anni. Tutti a criticare "X-Factor" e, per carità, ognuno è libero di avere le proprie idee, ma a me "X-Factor" ha proprio cambiato la vita. Non solo perché mi ha messo al centro di una visibilità mediatica che poi mi ha aiutato a intraprendere molti altri progetti, ma me l’ha cambiata perché mi ha messo in mezzo alla gente, una cosa che ho sempre cercato, ma in passato non riuscivo a trovare il sistema per poterlo fare. E sai perché? Perché volevo stare con gli altri, ma senza accettare i compromessi che di solito si rendono necessari nella vita sociale. Stare in mezzo alle persone significa accettare dei compromessi per poterci stare, e io non sono mai riuscito ad accettare questi compromessi. La televisione mi ha invece finalmente permesso di essere me stesso fino in fondo, addirittura di diventare ancora più personaggio, con aspetti del mio carattere che probabilmente in passato non erano considerati buoni, positivi o socievoli, per cui, rimanendo me stesso ancora più che mai, sono riuscito a diventare una persona in mezzo alla gente. Adesso, quando mi trovo in giro per la penisola, sto bene in mezzo alla gente. Queste cose nella vita contano infinitamente più di un accordo diminuito, di un suono di chitarra particolare, per me la vita vale molto più di tutte queste cose. Tutto questo è un percorso di vita, per me e per tutti coloro che, come me, sono passati attraverso un bel po’ di inferni personali. Se tu leggi le cose che facciamo, le decisioni che prendiamo, quelle che prendo io, in questo senso dovresti riuscire a leggerle in maniera più nitida.

Germi

Dopo gli ultimi vent’anni di distruzione culturale, di destrutturazione completa, il mercato in questo momento è diventato tossico

I tuoi impegni oggi sono davvero numerosi. A Milano è nato già da qualche anno lo spazio Germi che ho interpretato come una sorta di rivisitazione in chiave moderna del concetto di centro sociale…
Germi è proprio uno dei progetti che mi sono concesso grazie ai benefit arrivati dalla televisione, da "X-Factor", in particolare. Ho fatto riaprire a Milano un centro culturale, un laboratorio dove abbiamo fatto confluire tante attività creative, spaziando dalla letteratura, con presentazioni di libri e corsi di scrittura, al disegno, dai fumetti alla stand up comedy, per un periodo ci sono stati anche il teatro e un cineforum, più numerose manifestazioni, rassegne, incontri. Germi vuole essere un laboratorio dove si devono incontrare persone creative disposte a scambiarsi idee, e adesso la musica ha ripreso un ruolo principale perché, grazie a un’idea di Francesca Risi, che è una dei soci di Germi, abbiamo creato una rassegna che si chiama “Carne Fresca”. Il nome lo ha proposto Francesca, anche se è un pezzo degli Afterhours, che fra l’altro è incluso in “Ballate per piccole iene”. Questa rassegna vuole rappresentare un aiuto concreto a una nuovissima generazione di giovani musicisti, ragazzi compresi fra i 15 e i 30 anni. Non tanto un aiuto ad avere visibilità, quanto a riconoscersi, a riconoscersi come scena, perché c’è una scena nutrita di ragazzi che suonano, e piuttosto bene, e c’è un pubblico curioso, che ha voglia di conoscere.
Questa cosa mi ha entusiasmato, perché dopo gli ultimi vent’anni di distruzione culturale, di destrutturazione completa, il mercato in questo momento è diventato tossico per quanto risulta privo di qualsiasi tipo di direzione sociale. Il mercato musicale attuale trasmette messaggi che riguardano soltanto successo a tutti i costi, furbizia, convenienza. Prendere iniziative simili a quelle che stiamo prendendo noi dentro Germi è un compito che spetta alle persone della mia generazione: dobbiamo tutti trovare il modo per trasmettere le esperienze che noi avevamo vissuto, quando avevamo dimostrato come fosse possibile costruire una scena davvero alternativa, in grado di vivere di vita propria e di produrre delle professionalità, oltre a tanta arte e creatività. Tutto ciò oggi è tornato a essere possibile: nel giro di pochi mesi, ci sono arrivate più di 700 richieste di giovani band per suonare, e stiamo mettendo in piedi numerose attività per renderlo attuabile. Non solo a Germi, dove c’è la fila fuori, con il pubblico super-interessato ad assistere a esibizioni di band sconosciute, mica così scontato, ma anche portando questi gruppi in giro per l’Italia. Abbiamo appena partecipato al Festival dell’Economia a Trento, portando quattro di queste band. All’interno del programma che conduco su Radio 24, alla fine di ogni puntata, passo una traccia di un gruppo nuovo, di uno di loro. A breve, come Germi, cureremo la direzione musicale del Milano Film Fest, e ogni giorno saranno in cartellone due formazioni del circuito “Carne Fresca” che suoneranno sul sagrato del Piccolo Teatro.

L’auto-ghettizzazione, il protezionismo che ha avuto la scena “alternative” italiana dagli anni Duemila ha distrutto tutto quello che c’era, tutto, completamente 

Alcune apriranno anche le date del vostro tour…
Sì, avremo due opening band a sera per tutte le date del tour di “Ballate”. Alla fine stiamo movimentando in tutto una cinquantina di gruppi, dando loro intanto la possibilità di crescere, consentendo loro di fare esperienze che altrimenti avrebbero impiegato molto più tempo a concretizzare. Ma soprattutto – ti ripeto – la vera mission è imparare a riconoscersi come realtà, scambiarsi gli strumenti, scambiarsi i contatti, raccontarsi esperienze, crescere come scena, come successe a noi alla fine degli anni Ottanta. Questo potrà portare, tra qualche anno, a ricostruire una scena molto forte, che si sappia porre in alternativa a quello che sta accadendo ora nel mercato. Ci vorrà del tempo, non accadrà prestissimo, ma tanto questi ragazzi sono giovanissimi. L’auto-ghettizzazione, il protezionismo che ha avuto la scena “alternative” italiana dagli anni Duemila ha distrutto tutto quello che c’era, tutto, completamente. Quello che dobbiamo fare è tornare ad aprirci, difendendo un certo tipo di linguaggio e rivolgendoci verso l’esterno, verso le persone. Questi ragazzi sono pronti a farlo, perché sono meno condizionati, sono meno provinciali di quanto non lo fosse tutta la scena creata dalla generazione che li ha preceduti.

Ho detto no a un sacco di proposte, e anche a tantissimi soldi, soldi per i quali chi dice che sono un venduto ucciderebbe tutta la famiglia, te lo garantisco

Radio 24 - Leoni per Agnelli

Esiste anche un Manuel Agnelli speaker radiofonico, che sa come farci respirare l’atmosfera delle radio libere anni 70/80. Su Radio 24 conduci il programma “Leoni per Agnelli”, ascoltabile anche via podcast. Si tratta di puntate tematiche dedicate a musicisti, sia molto noti che più “ricercati”, puntate nelle quali, ad esempio, accendi i riflettori su Marta Salogni o Valentina Magaletti. Poi ci sono approfondimenti illuminati, come le puntate sui produttori. Com’è nata questa esperienza e quanta libertà hai nella scelta dei temi trattati?

Anche questa è stata una delle positive conseguenze della televisione. Il fatto che io fossi diventato un personaggio televisivo rilevante mi ha consentito di ricevere molte richieste. Ho detto no a un sacco di proposte, e anche a tantissimi soldi, soldi per i quali chi dice che sono un venduto ucciderebbe tutta la famiglia, te lo garantisco. E ho detto diversi “no” perché alcuni progetti che mi sono stati proposti, in realtà, non mi riguardavano, non mi appartenevano. Altri, invece, li trovati molto stimolanti e ho accettato di farli. Da Radio 24 mi hanno contattato per offrirmi la conduzione di un programma tutto mio, lasciandomi totale carta bianca, una cosa veramente molto importante. Radio 24 è un’emittente che tratta soprattutto di economia, ma è una delle poche radio in Italia che possiede dei contenuti: non è soltanto una scatola vuota, come moltissime altre. Mentre nelle radio commerciali il formato e il ritmo contano più del contenuto, funzionano così, su Radio 24 il contenuto è obbligatorio, perché si tratta di una radio di informazione, una delle poche in Italia dove puoi fare approfondimento. Quindi la proposta mi ha intrigato, ci ho provato, e siamo arrivati alla terza stagione. Sta andando benissimo, perché posso davvero fare quello che voglio. Ormai credo di avere un minimo di credibilità, per cui gli ospiti vengono da me volentieri, sanno che nel mio spazio possono parlare liberamente, possono approfondire, ed è tutto molto stimolante. Sto imparando ancora tantissimo, anche perché ho l’opportunità di incontrare personaggi di tutti i tipi, non soltanto musicisti e artisti, ma anche scienziati, sportivi, cuochi, ed è un ulteriore mezzo – molto bello - per stare in mezzo alle persone.

Manuel producer

Il mondo della musica non è composto da persone mature, non è composto da persone che hanno una grande lucidità mentale

Facevo cenno alle puntate dedicate ai produttori, e tu stesso in passato hai prodotto dischi molto importanti. Fra gli altri, potremmo citare le esperienze con Cristina Dona', con il secondo album dei Verdena, con i Massimo Volume di “Club Privé”. Eri molto ricercato come producer. Come mai da un certo punto in poi hai scelto di interrompere quest’attività?
E’ frustrante fare il produttore: alla fine se il disco è bello, il merito è della band, se il disco è brutto, la colpa è del produttore. E’ una responsabilità molto forte. Io naturalmente come produttore ho sempre cercato di portare degli elementi, perché altrimenti a che cosa servi? Però, al contempo, ho sempre cercato di rispettare lo spirito dell’artista. Alcune volte anche troppo. Ho capito con il tempo che si tratta di un ruolo che faccio fatica a ricoprire, perché spesso gli artisti hanno una propria visione, e non riescono a vedere le cose dal di fuori. E’ successo anche a me eh, per carità! Devi fare prima il produttore e poi il musicista, e io purtroppo sono prima un musicista e poi un produttore, per cui mi faccio sempre un po’ corrompere dagli artisti quando mettono sul tavolo la propria idea. E spesso la loro idea non è la migliore, vista da fuori. Il mio problema è sempre stato quello di rispettare troppo gli artisti e, secondo me, quando è accaduto non ho fatto bene. Sono troppo musicista per essere un produttore di professione. Inoltre in alcuni casi, ma non ti dirò quali, gli artisti si sentono come se ti stessero facendo un favore, loro a te, e, attenzione, indipendentemente dalla loro fama. Questo atteggiamento l’ho ritrovato anche dentro "X-Factor". E’ tutta la mia vita che sto cercando di dare spazio agli altri: ho organizzato il Tora Tora Festival, lo sai, e poi le serate “Hai paura del buio?”, e poi ancora “Il Paese è reale”, e dopo un po’ i meccanismi son sempre gli stessi: sono loro che fanno favori a te, e pretendono anche di avere un certo tipo di attenzione, di servizio, di cura, tutto ciò non ha alcun senso. Il mondo della musica non è composto da persone mature, non è composto da persone che hanno una grande lucidità mentale, umanamente è sempre tutto molto difficile. Il ruolo di produttore all’inizio mi ha dato delle grosse soddisfazioni, e questo è accaduto quando ho trovato delle persone che si fidavano di me. La stessa cosa è successa dentro "X-Factor": quando ho trovato persone che si fidavano di me, i risultati sono stati grandi, anche molto molto grandi; quando invece mi sono imbattuto in persone che si fidavano fino a un certo punto, alla fine i risultati non sono stati buoni. Fare il produttore per me è ormai una cosa laterale, che mi interessa sempre meno.

Manuel autore conto terzi

Invece il ruolo di autore conto terzi l’hai sempre percorso poco, quasi zero. Ti potrebbe intrigare in futuro?
Io ho scritto per Mina, più di così cosa posso fare? Diciamo che quella soddisfazione me la sono tolta molto presto, entrando dal portone principale. Io scrivo sul bisogno di farlo, ed è questo il mio modo di scrivere, non ne ho altri. Non scrivo per mestiere, anche se col tempo questo mestiere l’ho sviluppato. Io preferisco fare altre cose, e di molte abbiamo parlato durante questa intervista, inoltre voglio mantenere del tempo per vivere, per andare in giro, per frequentare gli amici, per viaggiare, per dormire. Non ho questo richiamo di dover fare per forza l’artista dalla mattina alla sera, non voglio che assuma tutte le caratteristiche negative di un lavoro, anche se lo è a tutti gli effetti. La mia ossessione negli ultimi anni è stata quella di preservare l’energia, e l’energia che scaturisce ad esempio dal suonare è così vitale proprio perché non lo interpreto come un mestiere, nel senso che non lo devo fare per forza: come ti dicevo, cerco di impegnarmi in tanti progetti in modo che nessuno possa diventare indispensabile. Non ho delle scadenze, anche se di fatto poi le scadenze ci sono, ma non sono delle scadenze lavorative, tipo la timbratura del cartellino. Inoltre, ho scoperto che più lavoro al di fuori della musica e più riesco a liberare la musica dalle pressioni. Scrivere per altri non è mai stata una necessità per me, e non credo lo possa diventare in futuro.

Manuel e il teatro: Lazarus

Fra pochi giorni sarai a Roma per chiudere la seconda stagione di “Lazarus”. Raccontaci com’è nato e come sta andando questo ulteriore progetto che ti vede protagonista…
Nelle scorse settimane abbiamo portato “Lazarus” a Firenze, Bolzano, Modena, Cesena, Genova, Bologna, chiuderemo a Milano dal 28 maggio al 1° giugno all’Arcimboldi, mentre a Roma saremo dal 5 giugno per 12 repliche al Teatro Argentina. Venite a vederlo, perché non so se ci sarà un’altra edizione: questa è già la seconda, abbiamo fatto 66 repliche tutte sold-out la prima volta, quest’anno sono altre 40 in tutto, quindi sinceramente non so se ci sarà una terza edizione di “Lazarus”. Vale la pena, anche perché c’è una band straordinaria. C’è Stefano Pilia, con il quale mantengo un rapporto di collaborazione molto vivo, anche oltre quello che ha fatto con gli Afterhours, c’è Stefano Battaglia, ex-Zu, c’è Paolo Spaccamonti, altro musicista straordinario, c’è Giacomo Rossetti che è il bassista dei Negrita ed è stato live nel mio progetto solista. Una band fantastica e un cast di ragazzi molto giovani, le nuove leve del teatro. E poi ci sono le canzoni di David Bowie, speciali dal punto di vista emotivo, e una regia fantastica, perché sottolinea la parte emozionale di quest’opera, che non si basa su un vero e proprio racconto, non c’è una vera e propria linea conduttrice, però ci sono molte metafore all’interno della storia nelle quali il pubblico si riconosce molto facilmente, espresse in maniera potente, grazie alla maestosità delle canzoni. Uno spettacolo che oltre a teatro e musica racchiude anche danza e videoarte, più un’opera teatrale che un musical, un’opera teatro-musicale come la definiva lo stesso David Bowie. Rispetto alla versione che venne presentata a Broadway, la nostra trasposizione è molto più dark, molto più vicina a quello che avrebbe desiderato in origine mettere in scena Bowie, e lo sappiamo perché Valter Malosti, il regista, è amico di Enda Walsh, co-autore – insieme a Bowie - dell’opera. I due conversarono a lungo sulla modalità secondo la quale Bowie avrebbe realmente voluto rappresentare “Lazarus”. Purtroppo morì poco dopo la prima a Broadway, quando certamente non aveva più né le energie né la voglia di modificare qualche aspetto dell’opera. La nostra versione dovrebbe comunque essere molto più vicina a quella che David Bowie avrebbe voluto.

Non mancheremo di venirti a trovare, dall'altro lato della transenna, sia in occasione di "Lazarus" che in occasione del tour di "Ballate". A presto Manuel e grazie per la grandissima disponibilità.
Grazie a voi!

(26 maggio 2025)

Discografia

AFTERHOURS
All The Good Children Go To Hell (mini-lp, Toast, 1988)5
During Christine's Sleep (Vox Pop, 1990)5
Cocaine Head (mini-lp, Vox Pop, 1992)5
Pop Kills Your Soul (Vox Pop, 1993)5
Germi (Vox Pop, 1995)7
Hai paura del buio? (Mescal, 1997)8
Non è per sempre (Mescal, 1999)7
Siam tre piccoli porcellin (live, Mescal, 2001)6
Quello che non c'è (Mescal, 2002)7,5
Ballate per piccole iene (Mescal, 2005)8
Ballads For Little Hyenas (Mescal/One Little Indian, 2006)6
Non usate precauzioni, lasciatevi infettare (Dvd, Virgin, 2007)
Cuori e demoni (doppio cd, antologia, EMI, 2008)6
Lesessioni ricreative(Ep, Universal, 2008)5
I milanesi ammazzano il sabato (Universal, 2008)6
Afterhours presentano: Il paese è reale (compilation, Casasonica, 2009)5
Meet Some Freaks On Route 66 (abbinato a XL Repubblica, 2012)5,5
Padania (Artist First, 2012)7
Hai paura del buio? Special Edition (Universal, 2014)8
Folfiri o Folfox (Universal, 2016)7,5
Foto di pura gioia (compilation, Universal, 2017)
Noi siamo Afterhours (live, 2019)
MANUEL AGNELLI
Ama il prossimo tuo come te stesso (Universal, 2022)7
Pietra miliare
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