Nicolò Carnesi

Nicolò Carnesi

Il pop, la noia e altre divertenti galassie

intervista di Gabriele Senatore

Nicolò Carnesi giunge al suo terzo lavoro in studio dal titolo “Bellissima noia”. Nonostante i suoi 29 anni, si presenta preparatissimo, determinato e con radici profondamente ancorate, oltre che nella sua terra d’origine, la Sicilia, in una cultura che spazia dalla serialità televisiva fino alle sottigliezze del cantautorato italiano d’altri tempi. Dato un interlocutore così capace di muoversi da una sfera del sapere all’altra, l’intervista ha assunto le fattezze di una conversazione, piuttosto che un classico botta e risposta. Punto a nostro favore: già durante le prime battute, Nicolò afferma di seguire OndaRock dall’adolescenza, e sottolinea che la webzine gli ha permesso di scoprire molta musica.

La tua carriera musicale comincia al fianco dei Paradisi Artificiali, chiaro riferimento a Baudelaire. Ad oggi il tuo terzo album in studio s'intitola "Bellissima noia". Ti chiedo, la noia di questo nuovo disco è lo spleen baudelariano? Si tratta in qualche modo di un ritorno alle origini?
Direi di no. Diciamo che quella è stata una parentesi giovanile, tant'è vero che il nome del progetto non l’avevo nemmeno scelto io. Facevo prettamente canzoni elettroniche, ancora non avevo chiaro quello che sarebbe stato il mio percorso; mentre col primo disco ho iniziato ad avere le idee più chiare. Sicuramente con “Bellissima Noia” c’è quella idea che la noia possa fungere da trasmettitore per le idee, che possa portare a fare qualcosa di buono, scrivere, creare, nonostante la classica accezione negativa. Volevo riflettere e raccontare il lato positivo della noia, perché molto spesso mi porta a “fare” tante cose, dalla scrittura a guardare un film, come dico anche nella traccia omonima del disco.

"Bellissima noia": come è stato creato questo disco? Al centro c’è stata una noia, potremmo dire, poietica?
Io sono andato a ricercare questa condizione. Vivevo a Milano, e sono tornato appositamente nel mio paesino di provincia palermitana, si chiama Villafrati, dove obiettivamente c’è molto poco da fare e ci sono solo tremila abitanti. In questo posto ho cominciato a racimolare le idee, poiché gli ultimi quattro anni della mia vita erano stati senza pause, non mi ero mai fermato tra un disco e l’altro, e avevo proprio bisogno di un anno o due al paese, come diciamo noi qui. Però in questo contesto dove non ci sono più aperitivi da fare o eventi da vedere, ho cominciato a riflettere sulla mia vita e su quello succedeva intorno, in Italia in particolare, ma ormai abbiamo ricettori anche rispetto al mondo con i social e internet in generale. Notavo, così, che molto di ciò che vedevo o che avevo vissuto non mi piaceva, e da lì è nato il ragionamento che mi ha portato a scrivere le prime canzoni. Una sorta di autocritica, ma di critica anche, rispetto al modo di vivere e di comunicare che abbiamo oggi, che non è assolutamente vicino all’idea di noia e di riflessione. La noia potrei anche vederla sotto quel punto di vista: un momento per riflettere, per racimolare le idee. Non va vista nell’altra accezione, ovvero l’apatia, che è diversa, se non l’alienazione totale.

Da giornalista, in virtù di pezzi come "Comunichiamo male", ti chiedo: cos'è per te la comunicazione?
La comunicazione è pensiero. Prima di scrivere o dire qualcosa, devi riflettere e documentarti su quello che stai dicendo, ed è una cosa che va scomparendo totalmente; ormai abbiamo la possibilità di dire la nostra all’istante, quindi paradossalmente si finisce per non cercare più di motivare, di istruirsi su quello che stai per dire. Lo stesso discorso può essere applicato su un disco, cioè ci sono artisti che fanno musica con lo stampino, solo perché vogliono battere il ferro finché è caldo, mentre sono convinto che molto spesso ci sia bisogno di tempo per capire cosa intendi fare, sbagliando e rendendosi conto di ciò che non va bene. Questo è quanto ho cercato di fare. A differenza del passato, ad esempio in “Ho una galassia nell’armadio”, proprio “sulla cresta dell’onda”, citando il vostro format, mi ero fermato pochissimo a riflettere; in questo disco sono partito da un’analisi. Le canzoni hanno avuto una loro maturazione assolutamente naturale e mi sono dovuto sentire pronto, se non spronato, a pubblicarle. Infatti, questa noia e questo isolamento mi stavano portando alla parte negativa, ad alienarmi, ed è stato Donato di Trapani, produttore del disco insieme a me e Fabio Rizzo, a riportarmi nel mondo reale. Mi viene in mente “Stranger Things”, quando il protagonista finisce in questo mondo parallelo; ecco anche io ero in questa situazione in cui non riesci più a districarti e ad uscirne, se non con un aiuto dall’esterno che mi portasse fuori dicendomi “Guarda ci siamo, possiamo lavorare al disco”. Da lì è cominciata un’altra parentesi, quella in studio, che è durata ugualmente tanto, circa cinque mesi.

Restando su questo parallelismo con “Stranger Things”, in quell’universo parallelo, poi, i protagonisti trovano una creatura mostruosa. Si diventa un po’ qualcosa di negativo, un “mostro”, restando nella dimensione dell’alienazione?
Esattamente, è un’arma a doppio taglio! Per quanto inizialmente mi stesse portando a capire molto, a essere lucido, poi non è stato più così, perché mi stavo isolando da tutto e non avevo più la capacità di toccare quello che stava al di fuori di me. Lì diventa autoreferenziale il pensiero e non va mai bene così, ci dev’essere un bilanciamento con l’esterno, e io me ne sono reso conto, altrimenti non sarebbe mai esistito il disco, sarei diventato un’ameba nel mio divano (ride).

In molti brani emerge il tema della comunicazione digitale tra backupblogger e rete da cui scappare. Quale pensi siano le conseguenze della mediazione tecnologica nei rapporti umani?
Innanzitutto, penso che il problema sia la non comprensione. Comunichiamo male tra di noi, perché tendiamo a interpretare quello che ci viene scritto; al di là dei modi più “umani” per comunicare come Skype, in genere usiamo la messaggistica istantanea, i commenti sui social, i tweet, che sono il riassunto di un concetto in pochissimi caratteri, cercando di sintetizzare tutto e spesso senza essere chiari. Questo, appunto, porta dalla parte di chi legge a un’interpretazione viziata, generando un circolo vizioso, dove il concetto di base si perde, mentre viene filtrato da tante altre idee. Faccio un esempio: ti arriva un messaggio dalla tua fidanzata, e tu in quel momento sei nervoso o di malumore, e finisci per pensare che dall’altra parte ci sia lo stesso sentimento, tenderai a leggere un “ciao” o un “buongiorno” in maniera negativa, interpretandolo a tuo modo, in assenza di un riscontro diretto attraverso l’ascolto del tono di voce o la visione dello sguardo. C’è una disumanizzazione evidente nel modo di approcciarsi alla rete; lo si vede con gli insulti facili, con argomentazioni senza fondamento. Perciò anche nel caso della comunicazione mediata c'è bisogno di prendersi un po’ di tempo, ragionando e capendo se è il caso di esprimersi e qual è la maniera più idonea. Molto spesso non ce n’è bisogno, e non c’è nemmeno il rispetto per gli altri. Per fortuna questo dal vivo non c’è ancora, ma su internet fa scaturire situazioni più serie, portando a suicidi, a depressioni, e non è da sottovalutare per l’umanità. Come ogni novità va metabolizzata e capita.

Non a caso la nascita della stampa spinse fenomeni quali la Riforma e la Controriforma della Chiesa; a volte le innovazioni tecnologiche vanno “digerite” dalla civiltà.
Sì, tra l’altro molte delle idee sulla comunicazione che ho trasposto nel disco sono venute dai romanzi di Michel Houellebecq, il quale affronta proprio questi argomenti; la disumanizzazione attraverso il progresso della tecnologia. Lui immagina persino un mondo in cui la religione non ha più il senso di esistere, perché in “La possibilità di un’isola”, lui immagina un essere umano che, attraverso la tecnologia, riesce a creare l’immortalità, finendo per non temere più l’ignoto, ovvero la morte, che è la paura vera e fondante di tutte le altre paure, e non hai più bisogno di un dio a cui appoggiarti. Quando presentai il pezzo “M.I.A.”, che parla di questa macchina che ingloba tutto il retaggio umano ed è rimasta da sola perché non esiste niente al di fuori di lei a quel punto, l’avevo presentato proprio con il verso di un libro di Houellebecq, ovvero “Le particelle elementari”.

Un sound eterogeneo quello di “Bellissima noia”, si sentono richiami a suoni di altri tempi, ma anche incursioni elettroniche più contemporanee. Come sono cambiate le tue sonorità da "Ho una galassia nell'armadio" e quali sono i tuoi nuovi approdi stilistici?
Sono due o tre i punti cardine di questo cambiamento. Uno è sicuramente che sono entrato in studio con una band e con tanti musicisti, mentre “Ho una galassia nell’armadio” l’avevo suonato prettamente io, poiché era un lavoro autoprodotto e “auto-suonato”. Invece, “Bellissima noia” è un lavoro corale; scritto e pensato da me, ma suonato da tanti musicisti, tutti palermitani, amici con cui avevo anche suonato in passato, ma a causa della lontananza non c’era stata più occasione di registrare qualcosa insieme. Poi, c’è il suono rigorosamente analogico: l’utilizzo del banco mixer analogico, nulla di digitale, synth modulari, tutto toccabile con mano, e questo strizza un po’ l’occhio al modo che sta tornando nella musica internazionale, pensando a dischi come quelli dei Tame Impala o degli Alabama Shakes o, su tutti, Bon Iver. Lui, tra l’altro, è stato geniale nell’ultimo disco. Ha portato all’estremo, all’esasperazione il digitale. Ti mette addirittura i difetti del suono digitale; se ti è capitato di ascoltare il disco, a volte ti succede di sentire delle distorsioni digitali che ricordano quando la scheda audio ti salta. Ha portato un concetto interessante, che nella musica non era stato affrontato del tutto, però mantenendo una nostalgia verso la scrittura d’altri tempi. Ci vedo molto del soul degli anni 70 in alcune melodie vocali, che è un po’ anche ciò che mi ha spinto a comporre “Bellissima noia”. Uno dei dischi che ho preso più come riferimento è stato “What’s Going On” di Marvin Gaye, soprattutto per quanto riguarda il lato ritmico, le percussioni e i cori, ho preso molto dalla Motown in generale. Però, ho cercato di attingere alla musica contemporanea, pur restando fuori dai confini nazionali. Tendo ad ascoltare più musica estera in ambito contemporaneo, mentre per quanto riguarda il passato la musica italiana mi è più cara, come “Anima Latina” o “Dalla” sono stati riferimenti molto forti per il disco.

Parlando di generi, la definizione che si è data al tuo genere di cantautorato pop ti sta stretta o preferisci che la tua musica sia percepita come facilmente fruibile?
Dipende da che tipo di pop. Oggi il pop ha una quantità di accezioni infinite; solo che si tende a pensare immediatamente al pop mainstream, in realtà penso che, invece, il pop abbracci veramente tutta la musica di massa. Anche gli Ac/Dc, secondo me, sono pop, non sono hard-rock, solo che hanno le chitarre elettriche. Mi piace il bel pop, quindi cerco di scrivere belle canzoni pop, come fa Paul McCartney; si tratta di un genere più pensato, che ha una qualità nella scrittura. Non mi piace il pop che passa oggi in radio, ma anche nell’ambiente definito spesso indie italiano, dove sento delle cose che proprio non mi piacciono, senza alcuna ricerca né nella scrittura né nel suono, al massimo il citazionismo fine a se stesso. Il citazionismo è piacevole quando unisce, sperimenta: dove posso dire “Ah questo mi ricorda Venditti, questo Dalla” e così via; non dove mi fa dire “Questo è Venditti” e basta, quindi un riproporre oggi un suono del passato, con toni anche più freddi. Poi, ci sono i prodotti usa e getta dei talent show, che nemmeno ascolto, perché non riescono a darmi nulla.

Detto ciò, senza alcuna intenzione di avviare botta e risposta sterili tra artisti, spiegami un po' il tuo verso "Ma tutto intorno non c'è niente di magnifico/Tutto intorno non c'è un cazzo di magnifico", perché oltre a lasciare di stucco l'ascoltatore medio, sembra davvero una risposta a Fedez. Lo è?
(Ride) Finora voi di OndaRock siete gli unici ad averlo colto (si riferisce alla recensione), e in effetti l’idea del verso era proprio questa. Fedez canta “Anche se tutto intorno è magnifico”; io mi guardo attorno e dico: ma veramente non c’è un cazzo di magnifico intorno! Anzi, tutt’altro, vedo un sacco di problemi! Quel tipo di pop lì, dove tutto è edulcorato e patinato, è fondamentalmente buonista, mentre non viviamo affatto in una società buona; si tratta di una facciata da dover dare quando sei in televisione, in realtà la maggior parte delle persone sono pezzi di merda (ride), sinceramente! Tutti abbiamo dei lati negativi, ma il mondo rappresentato dai media di intrattenimento soprattutto, dove deve regnare la leggerezza, non li mostra e questo non è bene. Ritengo che un minimo di critica serva a crescere; non è nichilismo, anzi, è ottimismo, perché se l’artista – colui che ha il compito per eccellenza di riflettere il malessere sociale – non realizza più questo compito, nemmeno in maniera leggera, non c’è crescita.

Infatti, in una intervista che ho fatto nei giorni scorsi, Andrea Appino degli Zen Circus mi ha detto che sente un ritorno della parla “rivoluzione” in molte canzoni odierne, ma che suona ridicola in bocca a chi non fa politica attiva.
Quando dico “Ho una rivoluzione che non vuole uscire”, mi riferisco proprio a questa condizione. Innanzitutto la rivoluzione dev’essere personale prima di poter diventare sociale. Il cambiamento dev’essere tuo, in prima persona; non puoi lamentarti della città piena di immondizia se poi sei uno che getta l’immondizia per strada. Non si pensa di far parte di una società.

L'assolo di chitarra dai toni psichedelici di "Cambiamento" mi ha colpito particolarmente. Quali influenze sonore avevi in mente quando l'hai scelto?
A livello chitarristico, c’era chiaramente molto dei Pink Floyd, perché forse Gilmour, quando ero ragazzino e cominciavo a suonare, è stato uno dei miei idoli chitarristici. Poi c’è anche l’eco dei Wilco, delle loro cavalcate sonore, che partono semplici e poi diventano schizofreniche soprattutto a livello chitarristico come “Impossible Germany” e la sua coda di tre minuti. C’è anche l’eco dei Tame Impala, poiché ho usato molto effetto nella chitarra, come riverbero, delay e così via. Ho cercato un po’ di unire questi mondi.



Discografia
 Gli eroi non escono il sabato (Disastro / Malintenti, 2012) 
 Ho una galassia nell'armadio (Malintenti, 2014) 
 Bellissima noia (Malintenti, 2016) 
pietra miliare di OndaRock
disco consigliato da OndaRock

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