Robyn Hitchcock

Il bardo della surrealtà

intervista di Filippo Bordignon

Napoleone/ Fu catturato dagli inglesi
Imprigionato nell’isola d’Elba/ morì al telefono
(“Cynthia Mask”, dall’album “Eye”)

Senza timore di esagerazione, il signor Robyn Hitchcock rappresenta, per gli anni 80, ciò che leggende del folk rock britannico quali Roy Harper e Richard Thompson hanno rappresentato per i 70; egli, cioè, si attesta come l’imprevedibile fuoriclasse capace di influenzare le generazioni successive senza rinunciare allo status di autore cult, artista fuori dal coro che preferisce produrre grandi album piuttosto che grandi numeri.
Dall’esordio con la band dei Soft Boys nel 1976 a oggi, ha macinato una carriera senza tonfi creativi, mantenendo alta l’asticella di un’ispirazione piegata a riscrivere il pop-rock psichedelico dei Seventies, speziandolo con abbondanti dosi di Syd Barrett e di molti altri outsider che hanno contribuito a rendere più folle la storia della musica popolare. L’impronta del post-punk, in aggiunta, ha complicato una formula già contorta, aggiungendo qua e là dissonanze e soluzioni compositive “alternative”, sì, ma ante litteram.
Hitchcock è cantautore di una surrealtà umoristica in bilico tra Edward Lear e Monty Python, una realtà altra, raccontata con la credibilità dylaniana di chi non conosca alternative alla poesia; nei momenti maggiori, armato di voce, chitarra acustica e qualche nota di pianoforte al posto giusto, egli raggiunge la placida malinconia che fu di Nick Drake, infondendole massicce dosi di non-sense, al fine di arginare la tentazione di scomparire per sempre.
Ironicamente pop, ruvidamente rock, autenticamente folk, Hitchcock si conferma, tra i viventi, il bardo più autorevole proveniente dal Regno Unito, macinando ancor oggi album di spessore, forti di una leggerezza solo apparente, impiegata per mettere in luce le pieghe più sordide di una realtà che, spesso, indossa le tinte dell’incubo.
Per il pubblico italiano ci sarà la possibilità di apprezzarlo dal vivo il 12 luglio, a Roma (Industrie Fluviali), nell'ambito della rassegna Unplugged in Monti, il 13 al Parco Mediceo di Pratolino (Firenze) e il 14 a Gabicce Mare (Pesaro/Urbino) per il Sottomonte Fest.


Robyn, a 71 anni compiuti, qual è la ragione che ogni mattina ti tira giù dal letto?
Devo scendere dal letto per forza, non foss’altro che per accedere alla sala da bagno. L’esistenza, a volte, risulta insopportabile, ma non abbastanza.

È nota ai più la tua passione per i gatti. Che ti hanno insegnato?
Mi hanno insegnato in primis ad amarli, e poi che è possibile amare qualcuno senza comprenderne le motivazioni.

Tra le tue influenze meno note c’è quel genio di Captain Beefheart. Cos’hai pigliato dal suo modus operandi?
Partiamo prima da quello che non ho pigliato: lui tormentava i suoi musicisti e questo io spero di non averlo mai fatto, ecco. Della sua musica amo i pattern caleidoscopici che era riuscito a tirar fuori dai suoi chitarristi, pur non sapendone nulla di chitarra. Nei primi Soft Boys ho cercato di ottenere quel particolare suono di chitarra “a incastro”; ma io ero un chitarrista, a differenza di Beefheart, e il risultato è stato, ovviamente, diverso. E poi ci sono i suoi favolosi testi, minacciosi e assurdi come solo la vita sa essere.

Se pensi alla reunion dei Soft Boys nel 2001, qual è la prima immagine che ti viene in mente?
Noi quattro che, un pomeriggio, ci siamo appisolati in studio di registrazione. Eravamo tutti sulla quarantina d’anni circa, ma ci sentivamo già così stanchi!

Robyn HitchcockA proposito di ricordi: quali sono gli ingredienti segreti del secondo album dei Soft Boys, il capolavoro “Underwater Moonlight”?
L’ingresso in pianta stabile del bassista Matthew Seligman ha portato al gruppo una ventata d’aria fresca, rendendo più divertente l’intero processo produttivo. Era una persona solare e ottimista. Incidemmo l’album in maniera molto spartana ma, nonostante ciò, raggiungemmo un traguardo importante: la nostra prima esibizione a New York. Un altro degli ingredienti è semplicemente il fatto che fui in grado di scrivere canzoni migliori rispetto al precedente “A Can Of Bees”. Ma, di nostro, eravamo un gruppo di persone poco comunicative tra loro. A caratterizzarci, dei lunghi silenzi.

Poco dopo, era il 1980, lo scioglimento della band. Le vere cause?
Ci sciogliemmo perché ognuno aveva in mente dell’altro da fare. Kimberley Rew, il chitarrista, aveva un mucchio di brani che non sarebbero stati adatti per quel progetto; per intenderci, lui è quello che ha scritto la hit “Walking On Sunshine” per Katrina & The Waves. Matthew invece voleva mettersi alla prova in altre band. E io smaniavo di iniziare la mia carriera solista, per non restare solo un Soft Boys. Anche se Soft, alla fine, lo siamo rimasti lo stesso.

Dopo l’eccellente esordio solista “Black Snake Dîamond Röle”, licenziasti l’album “Groovy Decay”, ma qualcosa non funzionò. Quali erano le tue intenzioni di allora?
Non è che avessi un piano vero e proprio; sapevo solo che non mi interessava ripetere quanto già suonato coi Soft. Così mi sono lasciato andare alla deriva nelle acque del 1981, per poi finire arenato nel 1982. E dovetti attendere due anni, per rilanciarmi, nel 1984.

La tua discografia è disseminata di compilation con inediti e demo di tal levatura da poter competere coi brani presenti negli album veri e propri. Come capisci che una demo è pronta per essere arrangiata?
È come se fossi sempre di fretta, perché una canzone tira l’altra, capisci? Onestamente non so perché alcune canzoni richiedano più arrangiamenti di altre. Comunque ogni registrazione che faccio, alla fine, è solo un progetto. A ben guardare, non ho mai compreso davvero come avvenga l’iter di produzione di un disco.

Riascoltando pezzi come “Arms Of Love”, “The Moon Inside” o “Serpent At The Gates Of Wisdom” da “Respect”, ci si trova di fronte a un altro piccolo grande classico. Tu, di per contro, te ne sei dichiarato scontento.
Le canzoni di per sé vanno anche bene. Personalmente, però, in quelle registrazioni credo di sembrare troppo distante, e forse lo ero: mentre le missavano a Londra sono rimasto negli Stati Uniti per quasi tutto il tempo. Lo immaginavo più organico, ecco, mentre il risultato suona alle mie orecchie molto sintetico. Ma in fondo mi trovavo alla fine di un’epoca, e i finali non sempre risultano piacevoli, o no?

La squisitezza stilistica che hai raggiunto con la line-up dei The Egyptians mi porta a chiederti: qual è il segreto per confezionare dell’ottimo pop-rock?
Non ne ho idea. Le mie canzoni hanno il pop come base di partenza, esattamente come ai tempi dei Beatles ma, vorrei aggiungere, non c’è proprio nulla che le renda un prodotto popolare.

Pesco nel mucchio dei tuoi brani più stravaganti: lo strumentale “Celestial Transgression” da “Life After The Infinity” del 2023 fonde la delicatezza di Bert Jansch al gusto obliquo di John Fahey.
Jansch? Beh, grazie. Sono sempre lusingato quando mi accostano a lui. “Celestial Transgression”è un pezzo che, da un bel pezzo, non smette di evolversi. E potrebbe mutare ancora un pochino… staremo a vedere.

Il Barrett solista non è più neppure psichedelia; un brano come “Opel”, ad esempio, è un universo che pochi si azzardano a esplorare fino in fondo. Quali sono le ragioni della grandezza barrettiana?
Eh, vorrei davvero avere qualcosa di nuovo da dire su Barrett. Mettiamola così: ha compresso una vita di estrema creatività nell’arco di appena 2-3 anni, l’ha spremuta al limite e poi se ne è andato. E' stato originale in una maniera che nessuno dei suoi discepoli, me compreso, avrebbe mai potuto e mai potrà essere. Era inspiegabile, proprio come i gatti cui abbiamo accennato prima.

Non ti pare che negli anni 90 il rock si sia fatto fregare lo scettro della psichedelia dalla musica elettronica? Intendo roba tipo Orb o Future Sound Of London.
Probabilmente hai ragione; nel menu di Nirvana e Oasis non era certo presente la visionarietà. Nei Nineties fornire approfondimenti “obliqui” non faceva più parte del lavoro di una rockstar; e comunque ricordiamoci che anche Bob Dylan e Jim Morrison amavano far festa e star leggeri, come chiunque altro. Temo però di non aver mai ascoltato Orb e affini: semplicemente, non facevano parte del mio ambient.

Il tuo chitarrismo unisce spesso semplicità a soluzioni armoniche non scontate.
Dopo 57 anni mi sto ancora evolvendo; sto diventando più fluido, più sicuro di me stesso, trovando la mia maniera di procedere tra esigenze ritmiche e soliste. Mi ritengo molto più in gamba con l’acustica, più esperto. Con l’elettrica ho bisogno di accompagnarmi a un altro chitarrista, come Kimberley o Davey Lane. Ma è divertente anche così.

Un’immagine per descrivere la musica di Robyn Hitchcock.
Brutte sensazioni in costumi sgargianti.

Quali elementi della tua personalità influenzano il Robyn compositore?
Sono impulsivo, impaziente, detesto i cliché, amo le distanze, l’acqua e il crepuscolo. Non sono realista ma, allo stesso tempo, ho rispetto per le cose così come sono. Mi aggrappo alla vita, pur disperando. Soprattutto, sono compulsivo. Ed eccoti servito il concime che fa crescere il mio songwriting.

Nell’Ep “Planet England” (2009) fai coppia con Andy Partridge; riflettevo su quanto, soprattutto in Italia, il suo genio resti semisconosciuto.
Andy è un tipo molto intelligente, un grande chitarrista, uno che per i suoi Xtc ha scritto canzoni meravigliose. Io e lui siamo creature parallele, che si nutrono delle proprie ansie individuali. È sempre un piacere incontrarlo. Anzi, mi sa che farei bene a rivederlo, finché siamo entrambi ancora qua.

Robyn HitchcockCosa pensi abbia fatto di “I Often Dream Of Trains” il tuo album più nominato? Intendo, titoli come “Moss Elixir”, ad esempio, non hanno nulla da invidiargli.
Alcuni dischi sono mondi a sé stanti. Non è possibile produrli intenzionalmente: accadono, e basta. “Berlin” di Lou Reed, “On The Beach” di Neil Young, “Time (The Revelator)” di Gillian Welch, “Astral Weeks” di Van Morrison. Il mio era “I Often Dream Of Trains”. Questi album non sono necessariamente la migliore collezione di canzoni di chi li ha incisi: semplicemente, incarnano con esattezza una certa atmosfera. L’unico elemento che ha caratterizzato “I Often Dream Of Trains” rispetto agli altri miei album è che, al tempo, ero piuttosto isolato dalla altre persone.

Dylan è forse la tua influenza più conclamata: l’ultimo suo album degno di nota?
Rough And Rowdy Ways” del 2020 è davvero incredibile. Prima di allora, nell’ambito della produzione più recente, “Time Out Of Mind” era il mio preferito. Che poi, a ben guardare, “Time Out Of Mind” ha già compiuto 27 anni, sicché è abbastanza vecchio per suonare come un autorevole psicoterapeuta. Per quanto riguarda Dylan, nello specifico, ritengo che non si debba analizzare la questione nell’ottica di cosa sta cercando o non cercando di fare. Per molto tempo, diciamo dagli anni 80 e fino al 2010, sembrava prevalentemente occupato a fregarsene di tutto. Nell’ultima decade, più o meno, pare gli sia tornata la voglia di mettercisi e, attualmente, ci sta raccontando di essere ormai alla fine della sua lunga corsa.

Un bersaglio che, nella tua carriera, hai fallito?
Adesso mi reputo un buon cantautore, ma non credo di aver mai realmente registrato un album che suonasse tecnicamente bene come avrei voluto.

Social media: strumenti che hanno messo tutti sullo stesso livello o armi improprie?
I social media ci tengono legati a uno schermo, così come le e-mail, gli sms, ma ci metto dentro anche i film che guardiamo sulle piattaforme digitali e buona parte dei lavori odierni, con l’eccezione dei mestieri manuali o di assistenza. Credo che tutto questo faccia parte di una spinta verso l’intelligenza artificiale e verso la nostra prossima fusione con i telefonini e con oggetti di quel tipo.

Frank Zappa: “(…) è la stupidità la vera sostanza costitutiva dell’universo, e non l’idrogeno”. Che dici?
Non so esattamente in quale contesto Frank abbia pronunciato questa massima, ma direi che la stupidità è un elemento costitutivo dell’umanità, piuttosto che dell’universo. L’universo è troppo grande per essere stupido. Se l’universo è stupido, allora se ne dovrebbe parlare con Dio, ammesso che qualcuno riesca a scovarlo. Questo sarebbe un problema così immenso che mi farebbe esplodere il cervello solo a pensarci. Anche a voi, anche a Frank; è semplicemente troppo, amico mio. Allora spostiamoci sul vero problema: gli esseri umani. Siamo abbastanza intelligenti da intuire la nostra stupidità; siamo bestie instupidite che si sono addentrate nella grotta del Divino e hanno bevuto l’aureo elisir, e ora siamo Dei che sanno della loro natura diabolica. A farla breve, siamo fottuti, ma da sempre. La certezza è che tutti tireremo le cuoia, che il mondo finisca o meno; la vita ci attraversa ed esce dall’altra parte, pronta a entrare in un’altra entità.

Oltre alla creatività, cos’hai ereditato dal carattere di tuo padre, l’artista Raymond Hitchcock?
Oltre alla sua implacabile creatività, papà mi ha trasmesso il suo solipsismo, la bassa autostima, la rabbia, le paure, la sua natura ossessiva, ma anche l’amore per la melodia.

Molti anni fa ricordo di aver letto su una fanzine dedicata alla musica psichedelica che da bimbo ti saresti buttato giù dal terrazzo di casa calzando un costume da aragosta. Mi chiedo se ci fosse qualcosa di vero.
Eh, mi piacerebbe… ma no: non sono mai saltato fuori dalla finestra vestito da aragosta. Neanche da bambino!

“Pazzia”. Ti viene in mente una definizione più calzante di quella che può darmi il vocabolario?
“Il modo con cui gli uomini si dannano avanti e indietro per il mondo”.

Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
L’arte - quella buona - cava fuori l’essenza della magia dalle tristi rocce della vita umana. Gli artisti sono lì per cantare l’esistenza e, così facendo, riecheggiare la fiammeggiante bellezza della Natura, in forma miniaturizzata.

Discografia

THE SOFT BOYS
A Can Of Bees (Yep Roc, 1979)
Underwater Moonlight (Yep Roc, 1980)
Nextdoorland (Matador, 2002)
ROBYN HITCHCOCK
Black Snake Diamond Role (Armageddon, 1981)
Groovy Decay (Albion, 1982)
I Often Dream Of Trains (Midnight Music, 1984)
Fegmania! (con gli Egyptians, Midnight Music, 1985)
Gotta Let This Hen Out! (live, con gli Egyptians, Midnight Music, 1985)
Invisibile Hitchcock (Glass Fish, 1986)
Element Of Light (con gli Egyptians, Glass Fish, 1986)
Globe Of Frogs (con gli Egyptians, A&M, 1988)
Queen Elvis (con gli Egyptians, A&M, 1989)
Eye (Glass Fish, 1990)
Perspex Island (con gli Egyptians, A&M, 1991)
Respect (con gli Egyptians, A&M, 1993)
Give It To The Thoth Boys - Live Oddities (live, con gli Egyptians, 1993)
The Kershaw Sessions (live, con gli Egyptians, Strange Roots, 1994)
You & Oblivion (Sequel, 1995)
Moss Elixir (Warner Bros., 1996)
Live At The Cambridge Folk Festival (live, con gli Egyptians, Strange Fruit, 1998)
Storefront Hitchcock (live, Warner Bros., 1998)
Jewels For Sophia (Warner Bros., 1999)
A Star For Bram (Editions Paf!, 2000)
Robyn Sings (live, Editions Paf!, 2002)
Luxor (Editions Paf!, 2003)
Spooked (Proper, 2004)
Olé! Tarantula (con i Venus 3, Proper, 2006)
This Is The BBC (live, 2006)
I Wanna Go Backwards (Yep Roc, 2007)
Sex, Food, Death... and Tarantulas (Live Ep, 2007)
Luminous Groove (Yep Roc, 2008)
Shadow Cat (Sartorial Records/ Goodfellas, 2008)
Goodnight Oslo (con i Venus 3, Proper, 2009)
I Often Dream of Trains in New York (live, cd+Dvd, Yep Roc, 2009)
Propellor Time (con i Venus 3, Sartorial, 2010)
Tromsø, Kaptein (Hype City, 2011)
Love From London (Yep Roc, 2013)
The Man Upstairs (Yep Roc, 2014)
Robyn Hitchcock (Yep Roc, 2017)
Shufflemania! (Tiny Ghost, 2022)
Life After Infinity (Tiny Ghost, 2023)
1967: Vacations In The Past(Tiny Ghost, 2024)
ROBYN HITCHCOCK & ANDY PARTRIDGE
Planet England (Ape, 2019)
Pietra miliare
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