Nostalgia, deja-vu, retromania, vintage? Nulla di tutto ciò accade in "1967: Vacations In The Past", supporto musicale al recente libro dei ricordi di Robyn Hitchcock "1967: How I Got There And Why I Never Left", ancora non disponibile in Italia.
Il viaggio in dodici tappe musicali dell'ultimo album del musicista inglese è una visita guidata nel museo dell'arte pop-rock, una mostra esaustiva dei gioielli più rappresentativi di un'era che, come l'Antica Roma o l'affascinante Egitto, è un punto fermo dell'evoluzione sociale e artistica dell'umanità.
"1967: Vacations In The Past", in verità, non racconta nulla di nuovo per chi conosce a fondo la carriera di Robyn Hitchcock, musicista che non ha mai nascosto le proprie fonti d'ispirazione - Bob Dylan, Syd Barrett, Jimi Hendrix, Beatles, Traffic - esibendole da sempre con orgoglio e rispetto.
Da questa profonda correlazione culturale viene fuori un progetto che commuove e diverte allo stesso tempo, una completezza emotiva che contagia e rende vive queste pur scarne e semplici riletture in chiave sixties-folk.
Con il fedele apporto del produttore Charlie Francis, il musicista britannico ha coinvolto alcuni amici e colleghi ben sintonizzati con la magia di quegli anni.
Perfetto cicerone, Hitchcock scorta l'ascoltatore tra alcune canzoni iconiche degli anni 60, rispolverandole con dedizione e cura dei particolari, memore dello stupore provato ascoltando un vecchio House Gramophone appartenente alla scuola, o del momento in cui, grazie al consiglio di un giovane Brian Eno, scoprì la musica di Jimi Hendrix e dei Pink Floyd.
L'album scivola via con piacere, con un brio e una vivacità che mancano a gran parte degli album di cover, spesso veri e propri tour de force. La sequenza è perfettamente incastonata tra due delle massime espressioni della musica rock: spetta a "A Whiter Shade Of Pale" dei Procol Harum aprire l'album, in una versione quasi dark e spoglia, che infine seduce e incanta al pari dell'insuperabile originale. Con eguale magia Hitchcock rilegge "A Day In The Life" dei Beatles, forte della piacevole e stuzzicante similitudine vocale con John Lennon.
"1967: Vacations In The Past" è un omaggio all'arte del songwriting pop-rock: con pochi cambi di registro e sparuti inserti strumentali, Hitchcock ne replica la toccante poesia. La leggera e inquieta malinconia che anima "No Face, No Name, No Number" dei Traffic, lo straniante tocco chitarristico di Kimberley Rew che agita "See Emily Play" dei Pink Floyd e la splendida versione di "Why Back In The 1960s" della Incredible String Band sono manifesto non solo della notevole creatività di quel periodo, ma anche di quell'epocale rivoluzione culturale che ben presto avrebbe trasformato una generazione schietta e desiderosa di libertà e pace in una consapevole e leggermente utopistica gioventù alle prese con un profondo cambiamento della società e dei costumi.
A completamento dell'excursus sonoro di quegli anni, fanno comunque bella mostra di sé le più rispettose e similari versioni di "Itchycoo Park" (Small Faces), "Waterloo Sunset" (Kinks) e "San Francisco" (Scott McKenzie), brani che diventa facile associare al profilo artistico di Robyn Hitchcock, al pari di "My White Byrch" (Tomorrow), che rimette al centro dell'opera l'indole psichedelica del musicista inglese. È altresì piacevole e scanzonata la versione più folk di "I Can Hear The Grass Rove" dei Move, che al pari di "Burning Of The Midnight Lamp" (Jimi Hendrix) perde un po' dell'irriverenza dell'originale.
Un unico brano scritto da Hitchcock, la title track, funge intelligentemente da momento di riflessione sul cambiamento che fece seguito al 1967, quando alla stagione dei sogni e dell'utopia subentrò l'era della consapevolezza e dello smarrimento. Nulla è stato più lo stesso, ma questo Robyn Hitchcock lo ha raccontato con intelligenza, ironia e sana follia nel corso della sua carriera. "1967: Vacations In The Past" è come un prequel, un prezioso documento che riscalda i cuori e restituisce intatta la magia di quegli anni.
23/09/2024