
Sia lode a Max Casacci. E' lecito pensare quel che si vuole riguardo alla musica dei Subsonica, ma per quanto riguarda l'organizzazione del Traffic Festival non si può che fargli i complimenti: anche quest'anno il cartellone è di tutto rispetto, i concerti sono gratis e il nuovo spazio presso la Reggia di Venaria Reale si rivela molto bello.
Dopo l'antipasto costituito da Claudio Simonetti (ex-Goblin) e dalla sua sonorizzazione live del film "Profondo Rosso", si entra nel vivo con l'accoppiata St. Vincent-Nick Cave. La fanciulla si difende bene, con una serie di ballate nervose, pronte a cambi di passo e a esplosioni "soniche" dove impazzano la chitarra della leader quanto strumenti quali il sax o il violino. Per un brano la cantante è tutta sola sul palco, con la sua chitarra elettrica, davanti al folto pubblico del Traffic: una dimostrazione di carisma e personalità.
Nick Cave & The Bad Seeds non sono invece una novità per il pubblico italiano e torinese, ma il concerto presenta alcune sorprese. Prima di tutto i Bad Seeds non sono più gli stessi degli anni scorsi: mancano Blixa Bargeld e Mick Harvey, rimpiazzati dalla chitarra dell'ex-Saints Al Kuepper e dal polistrumentista Warren Ellis (Dirty Three), diviso tra violino e "mandocaster". Si aggiunga una sezione ritmica che vede batteria e percussioni (con la possibilità di una batteria doppia) ed è chiaro che si tratta di una potenza di fuoco notevole. Ne esce fuori un suono rock compatto, rotondo, che molto spesso monta in crescendo potenti e dissonanti. Se ne giovano pezzi vecchi come "The Mercy Seat"e "Tupelo", ma anche una "Dig Lazarus Dig!" proveniente dall'ultimo album, così come il giocattolone electro di "We Call Upon The Author". Al confronto la precedente esibizione a Torino, in supporto a "No More Shall We Part", era stata un concerto di musica da camera. Ad essere cambiato è però anche lo stesso Nick Cave (di nuovo senza baffi), che ha lasciato da parte il personaggio maledetto di una volta, calandosi nei panni di un ironico ed energico entertainer. La sua performance da predicatore pazzo è semplicemente straordinaria e trasforma "Stagger Lee" in un saggio di recitazione sopra le righe.
Di tutte queste variazioni fa un po' le spese il pathos, stranamente assente nelle esecuzioni delle ballate del vecchio repertorio e del tutto dimenticato nei pezzi più recenti, soprattutto nei prescindibili brani recuperati da "Abattoir Blues". Dato il contesto piuttosto dispersivo, però, il ritorno al rock (in alcuni brani Nick suona una chitarra elettrica) risulta una scelta piuttosto azzeccata. Certo si può dire che Nick Cave era meglio ai tempi di "Murder Ballads", ma bisogna ammettere che ha trovato un modo convincente per rinnovarsi.
Venerdì le danze sono aperte dai Ladytron, che si presentano in formazione allargata, fornita di chitarre e batteria live. In realtà il risultato è ancora più eighties che nei dischi, con synth e beat elettronici in primo piano. La dimensione del concerto all'aperto non sembra però loro congeniale e alla staticità della musica si aggiunge quella delle due cantanti, che sono graziose e brave ma hanno una presenza scenica pari allo zero. Momenti migliori: tutti i brani cantati in bulgaro da Mira Aroyo, "Seventeen", "Destroy Everything You Touch".
I Primal Scream invece sono favolosi. La formazione segue il classico schema con basso, due chitarre e batteria e il repertorio, anche quello più contaminato, viene riletto in chiave rock, pur con i necessari inserti elettronici. Sono proprio i brani più densi di suono a rappresentare gli apici del concerto, come nel caso del raga lisergico "Deep Hit Of The Morning Sun", del blues psichedelico di "Suicide Bomb" e soprattutto dei brani tratti dell'album "XTRMNTR", tra cui una "Kill All The Hippies" funkeggiante, una "Accelerator" che sembra figlia degli Stogees, il mini-rave di "Swastika Eyes". Da "Screamadelica" arrivano, invece, la dolce ballata soul di "Damaged", una "Movin' On Up"che sembra la continuazione di "Sympathy For the Devil" che Keith Richards non ha mai scritto, l'oscuro dub di "Higher Than The Sun".
Ma anche quando si trasformano negli Stones, negli MC5 o in un gruppo garage degli anni Sessanta, i Primal Scream non sono mai meno che fantastici, spazzando via letteralmente la concorrenza delle nuove band britanniche che si rifanno a quel repertorio. Tra i punti di forza ci sono sicuramente il carisma di un Bobby Gillespie che non smette mai di incitare il pubblico e gli assoli devastanti di un Innes che segue in tutto la "vecchia scuola", facendosi beffe del minimalismo punk e indie-rock. Durante "Rocks" l'intero pubblico sta con le mani al cielo, dalla prima all'ultima fila.
Insomma, per parafrasare un famoso detto: ho visto il passato del rock n' roll e il suo nome è Bobbie Gillespie. E sia inteso come un complimento.
Sabato è invece la serata dance con Santogold, Underworld e Crookers.
Gli Underworld sono Karl Hyde e Rick Smith, uno preposto alle macchine e l'altro nel ruolo di vocalist, e propongono il loro tipico suono techno con una forte componente melodica, data sia dagli onnipresenti tappeti di synth, sia dalla voce. Nonostante qualche incursione nella electro e nel drum n' bass, i due rimangono fedeli allo stile che li aveva resi celebri negli anni Novanta, trovando la scontata apoteosi con l'inno "Born Slippy" e con i brani dell'album "Beaucoup Fish" che gli era seguito. La performance, con Hyde scatenato a ballare, quando non canta o non suona la chitarra, vede l'appropriato corredo scenografico di luci, proiezioni ed enormi palloni colorati, che entrano in campo, neanche a dirlo, sul celebre refrain di "Born Slippy", fra il tripudio generale.
La sensazione di trovarsi in una sorta di macchina del tempo è paradossalmente più forte nel loro caso piuttosto che nelle apparizioni dei rocker dalla carriera trentennale dei giorni precedenti; i due riescono però benissimo nel loro scopo, che è quello di far ballare e divertire il folto pubblico riunitosi per la serata finale.
Il bilancio delle tre serate è nettamente positivo: anche se forse è mancato un nome di grandissimo richiamo come negli anni precedenti, il Festival è riuscito a mantenere qualità e interesse per tutte le tre serate, reggendo bene la transizione dal parco della Pellerina a Venaria. L'unico appunto che si potrebbe fare riguarderebbe la tendenza a puntare troppo su nomi di lungo corso, però questo non dipende tanto da una scelta precisa degli organizzatori, quanto piuttosto dalla contingenza di una scena musicale che offre pochi personaggi in grado di coniugare novità e grande richiamo di pubblico. Considerando anche la situazione economica che stiamo vivendo, non si può che augurare lunga vita al Traffic Festival.