02/08/2012

Placebo

Ippodromo delle Capannelle, Roma


I Placebo - inutile negarlo - sono stati a lungo uno dei miei gruppi preferiti. Questo anzitutto perché sono stati una fra le mie prime scoperte "autonome" da ascoltatore in erba: avevo dieci anni quando scovai "Taste In Men", restandone folgorato. Mi feci comprare da mio padre "Sleeping With Ghosts", che rimase fra i miei dischi favoriti per anni. Nel 2006, il povero disgraziato fu addirittura costretto a cercare "Meds" per mezza Milano, e il disco mi esaltò forse più per l'amore incondizionato che nutrivo nei confronti di Molko & C. che per la sua effettiva qualità (benché non mancassero i pezzi da novanta). Ricordo pure lo sdegno con cui lessi la stroncatura che il disco subì su questi lidi, ad opera dell'ora collega e amico Marco Bercella. Poi arrivò "Battle For The Sun": era il 2009 e di anni ne avevo 14. Una delusione totale, un disco incolore e insapore, senza picchi, plastico e asettico. La perdita di uno stile, di un'impronta: niente glam, niente riffoni, niente depressione; al loro posto tanta, scontatissima melodia e ritmi sincopati. Un'esperienza da chiudere in un cassetto per poi buttarne la chiave, e dimenticarla.

Qualche giorno prima del concerto riascoltavo "Sleeping With Ghosts": dietro la parade di ricordi e immagini che affioravano da ciascun brano, si nascondeva qualcosa di inizialmente misterioso, che col passare dei minuti prendeva sempre più la forma di uno spettro, di un'ombra. Quello stesso album, che per anni avevo ascoltato ininterrottamente, non riusciva a trasmettermi praticamente niente. Una bella raccolta di gradevoli canzoni, qualche picco in grado di mantenere la mia posizione; ma nel complesso, una sesazione di piattezza generale, di un "già sentito mille volte". Alla prova del tempo e delle orecchie, i Placebo ne uscivano incredibilmente ridimensionati.
Il concerto a Roma doveva essere la mia occasione. L'occasione di urlare a tutti i detrattori della band che non si era di fronte a "quattro eterni adolescenti mezzi-ribelli mezzi-depressi", tutto fumo e niente arrosto. Che, sì, un disco l'avevano sbagliato e pesantemente, ma, in fondo, a chi non è mai capitato? Doveva essere l'occasione della rivincita di Molko sulle mie recenti perplessità e, per certi versi, della mia su me stesso e sui detrattori del gruppo.
E invece? E invece quel che è rimasto dopo il concerto di chiusura del Rock in Roma è il crollo di un mito, l'impressione di averci visto davvero male, di aver sognato per anni una band che band non è più, se mai lo è davvero stata.

Il racconto del perché è storia breve. La prima parte dello show è sostanzialmente dedicata agli estratti di "Battle For The Sun": quel poco che c'era di buono è rovinato (la title track, filastrocca dal ritornello epico trasformata da Molko in marcia funebre), il resto è copia-incollato dall'album, privo di qualsiasi espressione, tanto che un pertugio si trova forse nel rock sintetico di "Bright Lights", roba che potrebbe essere prodotta da un featuring tra i Simple Plan e il Jean-Michel Jarre delle ignobili "Calypso".
Poi ci sono i pezzi "forti". O meglio, che forti erano e ancor più dovrebbero esserlo dal vivo. Ma anche qui, buio totale. C'è "Every You Every Me", forse il brano meno interessante dell'ottimo  "Without You I'm Nothing", talmente vuoto nell'esecuzione da confondersi con le ultime cadute di stile. Ci sono i quattro gioielli "The Bitter End", "Infra-Red", "Post Blue" e "Song To Say Goodbye", suonati solo perché si deve, con cambi vocali, steccature di note e una stonatura dietro l'altra, capaci di annullare qualsiasi forma dell'originario pathos. C'è "Meds", trattata come merce per boy-band e c'è "B3", catastrofica anticipazione di un possibile futuro nuovo album. C'è Molko che sbaglia i testi, li mischia e li confonde e che dopo una "Special Needs" presa a sberle a suon di errori e urla fuori luogo, inizia, barcollante, a pontificare sul pubblico che non si anima abbastanza, sulla generazione e le tecnologie, sugli iPad e sulle troie (testuale), concludendo con la richiesta (non accolta) ai tecnici di spegnere i maxischermi che concedono squarci dal palco anche a chi sta dietro. C'è il pubblico, numeroso ma neanche tanto (3.000 persone circa), che cerca disperatamente appigli per divertirsi, ma fatica terribilmente a trovarne. E alla fine, nemmeno ti rendi conto che non ci sono "Taste In Men", "Without You I'm Nothing", "Pure Morning", "Special K" e "Sleeping With Ghosts", anche perché è senza dubbio meglio così: almeno il loro, di fascino, può non essere distrutto.

Sarebbe bello pensare che, quella sera, non ci siano stati nemmeno i Placebo, che fossero una cover band o degli ologrammi à-la-Gorillaz. La dura realtà, però, è che con tutta probabilità su quel palco non ci siano stati i Placebo di cui mi ero innamorato, ma quelli veri, quelli presi a pedate da Mauro Roma prima e da Marco Bercella poi. Che forse, all'epoca, c'erano andati giù anche troppo pesantemente, ma col senno di poi avevano probabilmente visto giusto.