27/07/2012

Simple Minds

Ippodromo delle Capannelle, Roma


Delle due l'una: o Jim Kerr ha qualche problema con la matematica, oppure è un gran paravento. Decisamente la seconda, si direbbe, anche se, a onor del vero, le mani avanti le aveva già messe nell'intervista che ci aveva rilasciato qualche giorno fa, precisando che "in occasioni di grandi platee e festival mischiamo i brani dei primi cinque dischi alle hit successive". Fatto sta che l'attesa moltiplicazione del "5x5" va a farsi friggere già a metà concerto: evidentemente il nostro furbacchione sa bene che per scaldare la vasta platea romana serve anche qualche inno da stadio. E lui non li lesinerà, con buona pace dei cultori di "Life In A Day", "Pleasantly Disturbed", "Factory", "Room" e tante altre perle di quella magica cinquina rimosse dalla scaletta finale. Pazienza, in fondo c'era da aspettarselo. Rimane, comunque, la scelta coraggiosa da parte dei Simple Minds di imperniare la setlist sulla fase più sperimentale di una carriera che li avrebbe poi trasformati in star mondiali. E soprattutto, resta il favore di averci risparmiato tanti pezzi indigesti dei loro ultimi dischi.
Forse anche per via di queste aspettative, comunque, l'impressione, giungendo all'ormai familiare ippodromo-auditorio, è di essere in compagnia di una consistente pattuglia di waver incalliti, di quelli che a casa conservano tutti i vinili di Echo & The Bunnymen e magari pure quelli dei Naked Eyes. Attempati e nostalgici, in buona parte, ma anche giovanissimi, attirati forse dalla fama di un gruppo di cui hanno sentito parlare dai genitori o dagli zii. Insomma, una grande rimpatriata wave, sottolineata anche dalla carrellata di classiconi che scorre prima del concerto, a cominciare da quella kraftwerkianaAutobahn” da cui nacque (quasi) tutto.

Dopo il set dei giovani Rainband da Manchester, che si chiude con un omaggio a Marco Simoncelli ("Rise Again", i cui proventi saranno devoluti all'associazione omonima), puntualissimi, alle 21,45, Jim Kerr e compagni, tutti nerovestiti, irrompono sul palco. Ed è addirittura trionfale l'ouverture di "I Travel" (da "Empires And Dance"), stupenda oggi come nel lontano 1980: elettronica vorticosa che non è invecchiata e, anzi, sembra persino più moderna di tanti gingilli synth-pop contemporanei. Stesso discorso per la successiva "Love Song" (da "Sons And Fascination"), groove funky-dance che pulsa irresistibile sulle cadenze forsennate dell'asse basso-batteria. Per chi, come il sottoscritto, non li aveva mai visti all'opera dal vivo, è una sorpresa anzitutto scoprire il "tiro" dei Simple Minds in formato live, con i bassi che pompano a tutto volume e un Kerr vero animale da palcoscenico: se la sua bella voce forse non è proprio imperiosa come ai tempi d'oro, è rimasta intatta la sua presenza scenica, la sua capacità di trascinare il pubblico. In completo nero e camicia bianca, asciutto e scattante nei suoi pantaloni stretch, il cinquantatreenne leader sarà l'assoluto mattatore on stage, con il suo repertorio di mosse e pose plastiche, come quando si sdraia sulla schiena e rialza di scatto, risultando a volte persino troppo piacione (del resto, da uno che riuscì a concupire la giovane Patsy Kensit c'era da aspettarselo).

L'impianto scenico è piuttosto minimale: luci prevalentemente bianche, oppure blu, un po' di fumo ad avvolgere la band sul palco. Eppure lo show inevitabilmente tradisce le contraddizioni di una band che ha ormai acquisito da anni una dimensione "da arena" e difficilmente riesce a spogliarsene, anche quando rispolvera il suo sofisticato repertorio underground. Una gran bella riscoperta, in ogni caso: ascoltare per credere "Celebrate", altro cavallo di battaglia di "Empires And Dance", con i timbri prepotenti del basso che ti triturano lo stomaco, le tastiere tecnotroniche e quel semplice ritornello, che Kerr declama con piglio beffardo. Accanto a lui l'inseparabile Charlie Burchill alla chitarra, il batterista Mel Gaynor (ormai anch'egli di lunga data), più Ged Grimes al basso, che non fa rimpiangere troppo il co-fondatore Forbes, e Andy Gillespie, che si destreggia abilmente alle tastiere. La solida architettura elettronica di "Love Song" (da "Sons And Fascination") mostra tutto l'affiatamento di un ensemble che pare davvero in grado di aggiornare la malia oscura di quei suoni all'era della techno.

L'attacco della batteria di "Waterfront", però, chiarisce subito le idee: spunta fuori "Sparkle In The Rain", e saremmo già a sei dischi. Pazienza, perché resta un gran pezzo, sempre efficace, oltre tutto, in veste live. Del resto, a soddisfare i palati più esigenti provvedono la magnetica "This Fear Of Gods", abisso dark di "Empires And Dance" con le sue cadenze ossessive e stranianti, nonché una commovente doppietta da "New Gold Dream": la mistica "Hunter And The Hunted", con i suoi miracolosi arabeschi di tastiere, e "Big Sleep", sempre ipnotica e suggestiva, grazie anche all'enfatica interpretazione di Kerr, a suo agio anche nel ritornello-mantra di "The American" (altro saggio di puro art-dance-rock da "Sons And Fascination").

Ma per quei fan-rompiscatole che non hanno digerito la svolta commerciale di metà Ottanta, la pacchia sta per finire: ecco allora i primi presagi con "See The Lights" (da "Real Life", 1991) e soprattutto con quella "Don't You (Forget About Me)" che incombeva nell'aria. E infatti arriva, con tutto il suo corredo di cori del pubblico, pause, riprese e salti collettivi. Mi sorprendo con imbarazzo a essere praticamente l'unico che non salta, ma per fortuna giungono i rintocchi di tastiere della sempiterna "Someone Somewhere In Summertime" a mettere tutti d'accordo: uno di quei pezzi che conservano una loro magia fuori dal tempo, anche se nessuna resa live potrà mai restituire l'incanto dell'originale.
"New Gold Dream", fresco di trentennale, è l'album più saccheggiato (nonché l'unico dei primi cinque da cui vengono effettivamente estratti cinque brani), e la title track esplode nella notte, con tutta la sua carica travolgente (riesumata perfino da Paul Oakenfold in un suo celebre remix), mentre Kerr gioca a contare con la mano: '81, '82, '83, '84, che diventa poi "one, two, three, four". Più che una canzone, un inno: alla stagione luccicante degli Eighties, ai nostri vent'anni, al grande sogno dorato. Al culmine dell'entusiasmo collettivo, Kerr e compagni abbandonano la scena.

Al ritorno sul palco, c'è tutta la band tranne il cantante: è l'occasione per riportare alla luce "Theme For Great Cities", l'epico strumentale che troneggiava tra i solchi di "Empires And Dance": un'esecuzione talmente perfetta da togliere il fiato. Poi è la volta di un altro tandem di hit - "Alive And Kicking" e "Sanctify Yourself" (dal bestseller "Once Upon A Time") - che precedono la quinta gemma di "New Gold Dream", una "Glittering Prize" un po' sottotono, ma, almeno per un album dei cinque, i conti tornano.
Kerr è in vena di dediche: a Roma, per la quale confessa di essere ancora "caduto in amore" come la prima volta, e alla sua prediletta Sicilia, omaggiata da un clamoroso "minchia!" gridato a squarciagola. L'epilogo musicale è invece il tour de force di "Ghostdancing", già immortalato in quel di Live Aid (anno domini 1985), quando i Simple Minds si esibirono sull'altro lato dell'oceano, a Philadelphia. Sul palco, è tempo di saluti. Kerr si congeda ballando come un ragazzino sulle note di "Let's Stick Together", e idealmente zio Bryan, da chissà dove, ringrazia.

Alla fine, anche se quel benedetto "5x5" non si è completato e la scaletta è stata più breve del previsto, resta la soddisfazione di aver rivissuto, almeno in parte, quelle meravigliose atmosfere. Peccato che tra gli "intrusi" non ci sia stato "Up On The Catwalk", il capolavoro di "Sparkle In The Rain", e che sia stato penalizzato soprattutto "Life In A Day", il disco d'esordio, lasciato praticamente intonso per ritagliare spazio ai successi. Ma aleggia soprattutto il dubbio su cosa sarebbero stati i Simple Minds se non si fossero lasciati lusingare dalle sirene del mainstream-rock, se avessero continuato a sperimentare su quelle spericolate traiettorie synth-wave che li avevano condotti fino al Sogno Dorato. Ma poi ti rendi conto che, anche stasera, al cospetto di una platea di "hardcore fans", come li ha definiti Kerr, "Don't You" è stato di gran lunga il brano più acclamato. E allora viene da pensare che forse hanno avuto ragione loro. Forse.