Gli anni trascorrono impassibili e gli Eels continuano a essere una di quelle band destinate a dividere gli appassionati. Il considerevole quanto caloroso zoccolo dei fan proprio non sembra assottigliarsi con l’andar del tempo, così come gli strali di certa critica non hanno mai smesso di colpire con esagerata violenza qualunque cosa venga pubblicato dal gruppo di stanza in California. Al di fuori della legittima ma angusta logica del gioco di fazione, restano sul tavolo alcune considerazioni che inquadrano con la maggior imparzialità possibile uno dei pochi veri fenomeni del rock alternativo statunitense di questi tempi, al netto di idolatrie e malignità gratuite. Difficilmente anche il più entusiasta degli aficionados potrà negare che l’eccentrico Mark Oliver Everett abbia finito per fare forse eccessivo affidamento sui propri istinti di autoconservazione, vivendo in buona sostanza di rendita e limitandosi a riproporre, con minime variazioni di forma, lo stesso pugno di (ottime) canzoni pop album dopo album. A voler mettere per un attimo la sordina a una simpatia nei suoi confronti vecchia ormai quasi due decadi, tocca riconoscere che di dischi a marchio Eels realmente imprescindibili non se ne incontrano dall’ormai remoto “Blinking Lights and Other Revelations”, autentico capolavoro di sincerità autobiografica. Allo stesso modo non potrebbe che fare una fatica immane, per giunta invano, il detrattore che voglia contestare l’assunto secondo cui Mr. E e il suo manipolo di fidati collaboratori riescano a confezionare spettacoli sempre estremamente godibili e originali. E’ un dato di fatto che lascia margini davvero esigui per oziosi distinguo o postille avversative.
Negli anni ci è capitato di apprezzarlo dal vivo sotto i più disparati camuffamenti espressivi, dall’elegante veste cameristica con tanto di quartetto d’archi del tour “Eels With Strings” al pop-rock in salsa surrealista di quello “No Strings Attached”, dal diario intimista di “An Evening with Eels” alla gelateria elettrica del “Tremendous Dynamite Tour” in occasione del suo più recente passaggio italiano, sempre all’Alcatraz di Milano. Se un orientamento di massima pare allora scontato, visto il taglio rumoroso dell’ultimo lavoro in studio (“Wonderful, Glorious”) e la scelta di una venue che esclude in partenza i fronzoli sinfonici, le variabili dell’incertezza si mantengono pur sempre su discreti livelli così come la curiosità degli spettatori accorsi da tutta la penisola (isole comprese, come abbiamo avuto modo di verificare). Tutti presi a fantasticare sulle trovate sceniche e di copione che a breve ci sbalordiranno, ne siamo convinti, ci dimentichiamo totalmente di prendere in considerazione il capitolo dedicato agli eventuali opener, anche perché nel poster di presentazione di questo “Natural, Spectacular Event”, accanto all’immancabile uccellino (qui barbuto e con occhiali da sole) e all’accattivante teaser “Hold on to your hat!” (“Tenetevi forte!”) non è menzionato alcuno Special Guest. Non cambia le carte in tavola nemmeno il veder avanzare nella folla a centro platea una gigantesca figura truccata (e vagamente inquietante) che conquista la transenna in agilità, tra lo scetticismo generale. L’idea di una carnevalata in ritardo, allestita per puro esibizionismo, ci sfiora. Le luci ancora accese forzano in tal senso le nostre facoltà nel leggere con prontezza la situazione, ma va detto che il velo di disappunto per la temperatura polare della sala (richiesta da Mr. E in persona) non gioca proprio a favore della nostra lucidità.
E invece no. Non capita tutti i giorni di trovarsi a far da sostegno ad un tizio conciato come la sinistra controfigura dell’efferato John Wayne Gacy, nella sua marcia inarrestabile verso il microfono a centro palco. Ma è pur sempre vero che un concerto degli Eels rimane un mondo a parte, dove può capitare che un bassista (Honest Al, che all’epoca era Krazy Al) faccia di tutto – dal bodyguard minaccioso al breakdancer da manicomio – fuorché suonare il proprio strumento. Così l’equivoco è presto rovesciato, e ci troviamo a fare la conoscenza di Puddles, monumentale artista antipasto con un talento innato per la stravaganza, e il suo numero da circo dell’assurdo denominato “Puddles’ Pity Party”. Un set non più lungo di una ventina di minuti quello imbastito dal bizzarro soggetto, ma sufficiente a intrigare i presenti e meritarsi applausi scroscianti. Da un avvio teatrale e nonsense tutto giocato sulla caricatura della timidezza alla standing ovation finale, Puddles si conquista i favori del pubblico eseguendo improbabili cover su basi registrate con una voce baritonale semplicemente pazzesca, ideale per il crooning consumato del brano rompighiaccio, “Lonely Guy” (di Dexter Romweber), ma non meno calzante per il metal populista di una “Enter Sandman” o per l’apoteosi pop della Celine Dion di “My Heart Will Go on” (ebbene sì). Un siparietto di kitsch sublime, quindi, reso più gustoso dall’estenuata malinconia del performer e dei suoi tristissimi cliché (dalla matrioska di valigie al fiore dal gambo smisurato o l’immancabile scatola di fazzolettini) oltre che dal supporto indiavolato della sua spalla comica, Monkey Zuma, una Minnie erotomane con maschera di scimmia intenta a ballare, scolarsi d’un fiato bottiglie di birra da 66 cl. (amorevolmente servitele dal cantante pagliaccio) come biberon, lanciare banane al pubblico o usarle per simulare atti osceni. Un’anteprima delirante ma leggerissima, chiusa dalla mesta uscita di scena di Puddles con la medesima passerella tra la folla, stavolta a ritroso, in un buio rischiarato unicamente dalla sua vecchia lanterna.
Riconosciuto il taglio burlesco tanto caro al frontman degli Eels, ci sentiamo solleticati al punto giusto e gradiamo che tanti spettatori già chiamino a gran voce sul palco la band. Quando però vediamo comparire trafelata una fanciulla in cappotto e non la comitiva dei guasconi, la sorpresa è duplice. In primo luogo perché non immaginavamo fosse stato arruolato addirittura un secondo artista, oltretutto per un set che sembrerebbe avere davvero poco a che vedere con quanto appena apprezzato o con lo show vero e proprio. E poi perché noi quel volto lo riconosciamo al primo istante, anche se mai avremmo immaginato di trovarcelo di fronte questa sera. E’ Nicole Atkins, cantautrice del New Jersey baciata qualche anno fa da estemporaneo (ma pur sempre limitato) successo, grazie al marchio Columbia sul dorso del suo album d’esordio “Neptune City”, e poi sparita con analoga rapidità nel dimenticatoio degli indipendenti troppo presto bruciati. Il suo accantonamento era stato un vero peccato, anche perché dalle ceneri della discreta cantante ammantata di patinato retro-pop era destinata a rinascere una cantautrice promettente, quella che un paio di anni fa deliziò un ridotto pubblico di affezionati con la sua seconda fatica, “Mondo Amore”, sancendo una svolta per lei molto importante. Ed è proprio questa incarnazione musicale più tradizionalista a definire l’abito attraverso cui la Atkins si presenta nella sua prima data italiana di sempre, dettaglio quantomeno curioso se si considera che suo nonno era di Palermo. A piedi nudi su un piccolo tappeto, sanguigna, tutta cuore e con una voce al meglio delle proprie potenzialità, incanta una platea che decisamente non è qui per lei. Solo il suo canto e la sua chitarra rossa, suonata in maniera secca e nervosa tagliando via tutto il superfluo, per un’esibizione breve ma toccante che la lascia anche visibilmente commossa. Brani dal primo disco rivisitati in questa veste cruda e sincera, due delle migliori canzoni del sophomore, una splendida cover di “Crying” (del nume tutelare, Roy Orbison) e un allettante inedito destinato al nuovo “Slow Phaser”, atteso per fine anno. Niente male per un regalo inatteso.
Il riallestimento in scena è talmente rapido che l’orda di fotografi stipati come una mandria nella strettoia tra noi e il palco non viene fatta nemmeno smobilitare. Spente le luci, gli Eels entrano uno alla volta accolti dagli schiamazzi festosi e, non fosse per la destinazione ai rispettivi strumenti, si farebbe anche fatica a distinguerli l’uno dall’altro. I cinque sono infatti vestiti Adidas dalla testa ai piedi – tuta blu scuro più scarpe bianche (scherzo o sponsorizzazione, difficile dirlo) – come una vera e propria squadra, e portano occhiali da sole tipo Ray Ban oltre alle immancabili barbe d’ordinanza. Il fido Knuckles si piazza comodo ai rullanti sulla pedana di sinistra e da il via alle danze, P-Boo, Honest Al e l’inossidabile Chet occupano la porzione rialzata sullo sfondo, mentre E irrompe con la sua inseparabile Danelectro celeste in un boato, appena in tempo per iniziare a cantare “Bombs Away” (apertura quasi ovvia dal nuovo lavoro). Ed è un eccellente abbrivo in chiave fuzz-blues quello regalato dalle anguille nel segno di “Wonderful, Glorious”, con tre recuperi di micidiale impatto seguiti a stretto giro di posta dall’indiavolata cover di “Oh Well” dei Fleetwood Mac (con Everett nei panni del cerimoniere esorcista con tanto di maracas) e dai latrati di “Tremendous Dynamite”. "Vi state godendo il rock?" chiede poi lui con voce luciferina, prima di annunciare un paio di episodi “per le signorine presenti” che a fine serata risulteranno appunto dei diversivi. Il tono intimo ad alto coefficiente di tipicità Eels di brani come “On The Ropes” o “The Turnaround” rimane una piacevole conferma dell’indole à la Jekyll del frontman, seppur confinata a questo giro tra due rigide parentesi dalla sua controparte chiassosa e ferina. La terna che segue vale infatti come dichiarazione d’intenti fin troppo esplicita, tra i calibri pesantissimi di “Peach Blossom”, l’opportuna rispolverata del licantropo di “Prizefighter” ed una “New Alphabet” rallentata sino allo spasimo, narcotica.
Nonostante questo preciso indirizzo espressivo, l’atmosfera si mantiene gioviale e guascona, procedendo anzi sempre più verso la farsa a briglie sciolte. Puntuale al termine di ogni pezzo, Mark invita uno dei compagni ad abbracciarlo, stemperando così quella cappa prevaricante e minacciosa che tanti dei brani proposti dall’ultima fatica in studio contribuiscono a delineare. Il culmine di questo clima di spensierata goliardia arriva con la frizzante cover di “Itchycoo Park” degli Small Faces, seguita dalla presentazione in pompa magna dei musicisti e dalla demenziale cerimonia del “rinnovo delle promesse” tra E e Chet, dopo dieci anni di strada percorsa assieme in giro per il mondo. Knuckles è il ministro da barzelletta che officia il rito e lo suggella cantando la zuccherosa “Wind Beneath My Wings” di Bette Midler, mentre i compagni si stringono le mani in un passaggio di rara ilarità. Tutto molto divertente, anche se i continui intermezzi faceti finiscono col togliere inevitabilmente ritmo all’esibizione, con troppe pause e un’eccessiva predisposizione alla caciara. Se è indubbio che questa formazione ormai rodata ha raggiunto dal vivo impressionanti livelli di affiatamento e di perizia tecnica, rimangono legittimi dubbi su quello che sempre più si profila come il grande assente della serata: il repertorio. Dire che basterebbe proprio poco a infiammare un pubblico elettrizzato ma ancora lontano dall’adorazione: lo dimostrano le versioni revisited delle più datate “Fresh Feeling” e “The Sound of Fear”, stravolte in chiave funky per non discostarsi dall’impronta beatamente ludica dello spettacolo.
“Souljacker, Part I” sembra prefigurare l’inizio di una più corposa operazione recupero a tutto beneficio dei fan, ma la successiva “Wonderful, Glorious” sconfessa l’ipotesi offrendosi in una baldoria che ha già il sapore dei titoli di coda. Non per niente la band esce di scena fra gli schiamazzi, mentre ai nostalgici incalliti non resta che la speranza dei bis. Vanificata anch’essa dall’esecuzione inattesa di “I’m Your Brave Little Soldier”, outtake leggerina dall’ultimo disco che certifica come Mr. E in questo tour abbia scelto senza esitazioni di guardare al presente, più che al passato. Liofilizzate e costrette a coabitare in un mirabolante mash-up, “My Beloved Monster” e “Mr. E’s Beautiful Blues” sanno di contentino, titillano ma non saziano. Dopo un ulteriore congedo e relativo ritorno, gli Eels sono assai più intensi nella titanica e sinistra “Fresh Blood”, che tra strobo a palla e ululati chiude un concerto godibile e movimentato ma pur sempre al di sotto delle aspettative. Le luci si riaccendono, parte uno sciatto sottofondo musicale e i roadie in tuta Adidas grigia irrompono portando via tappeti e un po’ di cavi. Parrebbe tutto finito e l’Alcatraz si svuota rapidamente per oltre metà. Chi segue Everett e i suoi da un po’ di tempo sa però bene che il gruppo ha la piacevole abitudine di tornare a farsi vivo dopo alcuni minuti per gli opportuni saluti. La tradizione è rispettata, almeno lei: i cinque ricompaiono per affrancarsi dagli spettatori più coriacei con il baccano rock di “Dog Faced Boy” e di un caotico divertissement intitolato “Go Eels”, cui partecipano a mo’ di tutori dell’ordine e del silenzio anche un agguerrito Puddles e la sua Monkey Zuma. Finisce in un allegro pandemonio, come da copione. Tre sere dopo a Vienna Mr. E proverà a superarsi con una messinscena particolarmente violenta tra lui e il clown ma i seguaci della band, stando ai commenti in rete, non sembrano gradire. Per chi da sempre sposa grande musica e modesto teatro non si può dire faccia notizia. Sbilanciando però la performance a favore del secondo e a discapito della prima, qualche recriminazione pare non solo legittima ma anche doverosa.
encore:
19. I'm Your Brave Little Soldier
20. My Beloved Monster / Mr. E's Beautiful Blues
21. Fresh Blood
22. Dog Faced Boy
23. Go EELS
NICOLE ATKINS
1. Maybe Tonight
2. The Way It Is
3. Cry Cry Cry
4. Crying
5. Red Ropes
6. The Tower
7. Neptune City