10/03/2015

Blonde Redhead

Hiroshima Mon Amour, Torino


A volte affidarsi alla logica del “bicchiere mezzo pieno” è una soluzione non soltanto salutare, ma anche onesta. Parlo per i disfattisti della malora come il sottoscritto, da sempre fenomeni nel mettere in rilievo pecche e inghippi in luogo della ciccia buona delle cose. Con la veletta nera sugli occhi non si vede bene, è un concetto con cui sarebbe bene imparassero tutti a familiarizzare. Personalmente mi ci sto applicando imponendomi una nuova disciplina, e talvolta anche i miei modesti giudizi ne beneficiano in termini di credibilità. Sulla strada impervia finalizzata a questo cambio di prospettiva, ho scelto non a caso di piazzare uno scoglio di quelli ostici per davvero, il primo concerto italiano dei Blonde Redhead nel tour di “Barragán”. Con il disco mi ha detto decisamente male, a più riprese: il pessimo primo assaggio, un secondo ascolto altrettanto sconfortante, l’abbandono, un tentativo di recupero abortito e poi la spugna scagliata nel secchio, croce sopra. Trascorre qualche mese in cui l’anomalo trio newyorkese non fa neanche una volta capolino nell’anticamera del mio cervello, quand’ecco che, agenda alla mano, incrocio tra le desolanti pagine bianche la data di inizio marzo all’Hiroshima. A logica non può che trattarsi di uno strazio da evitare come la peste, ma la terapia interiore me ne parla come di un’opportunità, mi intorta con belle piroette retoriche e alla fine la vince: nel suo momento forse meno roseo e ispirato, tornerò a vedere un gruppo che ho amato alla follia, dopo quasi otto anni dall’ultimo appuntamento e un filotto di delusioni da romanzo. Più che altro mi muove la curiosità, il bisogno di sapere come le nuove canzoni saranno proposte dal vivo e cosa ne sarà dello stinto minimalismo sintetico in cui la band ha scelto di rifugiarsi. Possibile si tratti davvero di un vicolo cieco espressivo? O inedite possibilità aspettano solo di essere apprezzate?

 

220x270_i“Barragán”, si diceva. Prima ho omesso di specificare che dal cestino della carta straccia ho poi provveduto a toglierlo, di nuovo. Ancora una manciata di giri sul lettore, senza più cercare scampoli di bellezza ma con l’unica finalità di definire e fissare minuziosamente, una volta per tutte, le coordinate di un evidente punto di riferimento verso il basso. Così da avere un termine di paragone “a salire”, diciamo, da infilare nel mio zaino mentale assieme a una risibile scorta di aspettative rigorosamente blande. A sorpresa l’ulteriore approccio nei confronti dell’album, tardivo e un po’ meno severo, ha lasciato qualche scoria non sgradevole in mezzo al generalizzato grigiore: poca roba, non abbastanza per smontare un impianto accusatorio solidissimo, ma pur sempre un appiglio da tenere a memoria e sfruttare secondo necessità. E rieccoci quindi all’Hiroshima – stessa venue di quell’ultimo remoto rendez-vous – già ben popolato alle 21.30, e sì che siamo in anticipo e interverrà anche l’immancabile gruppo spalla. Curioso, dando un’occhiata al banchetto del merchandising prima di affogarsi nella penombra del salone, perdersi in oziose riflessioni sulla magia appannata della formazione italo-nipponica. La prima: ogni nuovo tour è accompagnato da T-shirt che sono più brutte e tristanzuole del precedente (ho perso quella dei tempi di “Penny Sparkle”, ma anche questo trend discendente pare incontestabile). Seconda: dei nove Lp sin qui pubblicati, a questo giro si vendono tre vinili; nulla da eccepire per quello recentissimo e per “Melody Of Certain Damaged Lemons” – autentica opera di rottura nell’ultraventennale esperienza del gruppo – ma scorgere anche “In An Expression Of The Inexpressible”, il capolavoro di cui non viene proposto un pezzo dalla notte dei tempi, suona un po’ come una beffa crudele.

 

220x270_iiMi ero ripromesso di non tornare a lamentarmi per come nell’ultima decade (almeno) la band sembra aver scelto di sconfessare tutto quanto fatto in precedenza, quasi si trattasse di una brutta infezione da estirpare e dimenticare, ma, insomma, sentirsi punti sul vivo ha giusto il sapore della provocazione. I Blonde Redhead che “dovevano vergognarsi” dell’ascendente della Gioventù Sonica sono morti e sepolti, lo sanno tutti, anche il linoleum dell’Hiroshima: la svolta del nuovo corso (che ormai non è nemmeno poi tanto nuovo) si è dipanata in modo regolare e non ha avuto ripensamenti nelle prove in studio, per cui è impossibile che le scalette dei concerti parlino una lingua diversa. Eppure qualcosa mi dice che quest’amara verità lapalissiana potrebbe incrinarsi, finalmente, che toccato un certo tipo di fondo si possa dare inizio alla risalita e, chissà, alla riscoperta. E solo una piccola sensazione inconfessata, ma zitto zitto mi ci aggrappo con la forza del fanciullo che neghi a se stesso l’evidenza. Ci saranno le solite false partenze teatralizzate – puntuali, già sulla bucolica title track strumentale di “Barragán” piazzata a mo’ di introduzione – che evidentemente sono un rituale scaramantico, altre spiegazioni credibili non se ne vedono. Ci saranno i vezzi capricciosi della Makino, le lagnanze rivolte allo sventurato fonico e quella sua voce che ha bisogno di mezzora buona (e della consueta tisana calda) per degnarsi di venire a trovarci. Ci sarà l’illuminazione regolata sulla modalità “sordida cripta”, ché mica siamo venuti a fare bagni di luce e colore. E ci sarà il muro invisibile tra noi e loro, uno stitico ringraziamento ogni morte di papa a ricordarci che i ragazzi conoscono anche un altro paio di parole oltre ai testi dei loro brani. Tutto secondo programma, e va bene così.

 

220x270_iiiMa ci sarà anche la “Bipolar” che nessuno si aspetta, tranne il fanciullino di cui sopra. Bella scarnificata, con il duetto acidognolo tra le chitarre e tra Kazu e Amedeo, mentre Simone suona la batteria servendosi anche di una maraca e accompagna, ritmandolo, un sorriso largo così sul volto di chi avrà l’onore di far da testimone. Magari questo estemporaneo ritorno al gioiello “Fake Can Be Just As Good” sarà l’unico salto nel passato remoto. Difficile dirlo ma non importa, è già una scossa notevole e un bel regalo. Se l’imperativo era quello di provare a godersi lo spettacolo, a prescindere da questo o quel dettaglio risaputo e non proprio entusiasmante, devo ammettere che è bastata una canzone polverosa a farmi sentire molto più motivato. Segue “Hated Because Of Great Qualities” ed è un’altra considerevole iniezione di fiducia: la formula aspra delle due elettriche è ribadita e persino la voce femminile comincia a carburare a dovere dopo gli stenti in avvio. A questo punto neanche i frangenti più elettronici degli ultimi due dischi possono turbarmi, ma resto addirittura spiazzato da quanto riescano convincenti “Love Or Prison” e, soprattutto, “Mind To Be Had”. Nella prima, è vero, Kazu riprende un po’ il suo nascondino vocale sotto gli spigoli del suo basso e le coltri del magnifico synth moroderiano di Amedeo, ma nell’insieme il pezzo ha un tiro dark niente male. Ancora poco, tuttavia, rispetto alla fantasmagorica odissea sonora evocata da quello che, a mani basse, si conferma il migliore titolo dell’ultima fatica discografica: in combutta con il drumming robotico di Simone, il mellotron della giapponese disegna una sceneggiatura ipnotica e ritornante che anche l’ascoltatore più sprovveduto riconoscerebbe per le sue implicazioni kraut-rock. Il vero numero di bravura è però di Amedeo, sensazionale per le coloriture tutt’altro che algide regalate con la sua Gibson bruna, con un cantato privo di timidezze e l’irrinunciabile balletto a saltelli.

 

220x270_ivPer quanto mi riguarda, la strada si è messa in discesa. Ho già raccolto più di quanto sperassi, e non sono trascorsi neanche tre quarti d’ora dal via. Alle mie spalle, anche buona parte del foltissimo pubblico dimostra di essersi scrollata di dosso le eventuali perplessità del caso e, pur lasciati cadere, gli incitamenti non mancano. Nel prosieguo le vere chicche arrivano entrambe, come previsto, dal discreto scrigno di “Misery Is A Butterfly”: con le incombenze ritmiche equamente spartite tra i gemelli e un’interpretazione ora davvero limpida della scosciatissima Kazu, “Melody” è la più applaudita ma i favori di chi scrive vanno, magari per motivi affettivi, alla “Doll Is Mine” cantata da Amedeo con opportuna enfasi decadente. Se al conto aggiungiamo che anche “Dripping” si adegua a questo clima cupo ma fascinoso, risultando nient’affatto indigesta, e che “Spring And By Summer Fall” non tradisce la propria verve festosa e trascinante, dovreste avere la misura del notevole spettacolo offerto dai redivivi – è proprio il caso di dirlo – Blonde Redhead. Il quadro non sarebbe completo, tuttavia, se non si facesse menzione di quel che accade al terzo encore, dopo un’ulteriore doppietta “migliorata” da “Barragán” (che, almeno lato live, a questo punto è riabilitato). L’incrocio agrodolce dei riff felpati non dovrebbe lasciare spazio a dubbi o incomprensioni, anche se si stenta a crederlo: il terzetto ha attaccato “Violent Life”, e sì che forse non gliel’avevamo sentita suonare dal vivo nemmeno sui piccoli palchi di Chieri o Collegno, ere geologiche fa praticamente. A occhi ben aperti, ma stiamo sognando; la cavalcata trionfante di “23” suggella a dovere le confortevoli malie della serata, confortandomi nell’impressione che quella appena conclusa sia davvero la migliore esibizione del gruppo newyorkese cui ho avuto modo di presenziare da una buona dozzina di anni.

 

220x270_vPotere del “bicchiere mezzo pieno”, amuleto infallibile grazie al quale lasciarsi scivolare addosso anche le tante efebiche facce da salotto e lo stuolo di diciottenni agghindate come per una sfilata di moda, che affollano il fondo del salone e rendono tanto disagevole la ritirata. Ancora orniamo il nostro volto di un riso che non si cuoce incrociando gli sguardi altrui, in una ressa che per l’Hiroshima sa di apoteosi con tutti i crismi. Quanta bellissima gente mai vista a un concerto, tutta assieme, qui e ora! Ma, mi domando, mentre il pigia pigia mi pungola le scapole: tutti questi amabili signorini e signorine da presenzialismo social, quelli delle ciarle annoiate nelle retrovie, quelli che se va bene erano alla materna quando incrociavo i fratelli Pace e la sensuale concubina del Sol Levante per la prima volta, dove stanno di grazia quando in posti non baciati dal sole dell’hype arriva a suonare una qualche encomiabile compagine d’oltreoceano, e siamo sempre i soliti quattro gatti a godercela? Non sarà che, se la Torino della musica alternativa dal vivo è in crisi così nera, un po’ la colpa è anche loro? Il ventilato “ricambio generazionale” è con queste anime belle che ci tocca orchestrarlo? Ecco, accidenti, il velo nero dello scetticismo già ritorna impietoso. No, “tu guarda e passa”, mi dico, “lascia correre: la serata è andata non bene, benissimo”.

E il bicchiere è pieno, fin quasi all’orlo.