A volte ritornano. Ma chi ha perso le tracce del fortunato sodalizio Battiato-Alice ai tempi della “Chan-son egocentrique” o del duetto all’Eurofestival con “I treni di Tozeur” è stato un po’ distratto. I riferimenti incrociati tra i due, infatti, non sono mai venuti meno, dai “Gioielli rubati” dalla pupilla al maestro nel 1985 ai blitz della cantante di Forlì ai concerti del vate etneo con Antony e la Filarmonica Arturo Toscanini, dalla "Eri con me" firmata Battiato-Sgalambro su “Samsara” (2012) fino al duetto nella cover di Claudio Rocchi “La realtà non esiste”, incluso poi in “Weekend” (2014) insieme a un brano dello stesso Battiato (“Veleni”), autore anche della traduzione della “Tant de belles choses” di Françoise Hardy.
Insomma, le affinità elettive si sono protratte negli anni, nonostante i due abbiano viaggiato su rotte distanti che hanno portato la chanteuse di “Per Elisa” ad allontanarsi dai riflettori – con tanto di frequenti incursioni nella Classica - rispetto alla sempiterna popolarità del suo mentore. Il paradosso – ma fino a un certo punto – è che dei due, quella in forma smagliante è apparsa proprio Alice, eppure è stato sempre il settantenne Battiato a catalizzare attenzioni ed emozioni sul palco dell’Auditorium della Conciliazione, seconda tappa romana del percorso live che li vede, stavolta sì, per la prima volta, dividersi il palco in una tournée.
Tutte sold out le quattro date a Roma del “Battiato e Alice Tour”, già diventato un piccolo miracolo musicale dell’anno, con 17 tutto esaurito su 21 live in calendario. E l’accoglienza del pubblico è trionfale per i due vecchi amici, accompagnati dall’Ensemble Symphony Orchestra diretta da Carlo Guaitoli (pianoforte), oltre che da Angelo Privitera (tastiere e programmazione), Osvaldo Di Dio e Antonello D’Urso (chitarre), Andrea Torresani (basso) e Giordano Colombo (batteria).
Alle 21.10 è Battiato a rompere il ghiaccio nel tripudio di violini de “L'era del cinghiale bianco”, subito seguito da “Lo spirito degli abissi”, uno degli inediti inclusi nell'antologia "Le nostre anime" del 2015. Il tonfo del Petruzzelli con conseguente frattura del femore non può non aver lasciato qualche scoria sul maestro siculo, ancor più magro ed emaciato del solito. Canta seduto e tradisce qualche piccolo segno di affaticamento, ma farà presto a sciogliersi, sospinto dall’ondata di entusiasmo che giunge dalla platea.
Anche se la voce non è al top (saranno saggiamente schivate insidie come quella costatagli il piccolo incidente di "X Factor"), bastano la grazia innaturale e l’aristocrazia artistica del suo tocco ad ammaliare il pubblico, tra le note di classici come “No Time, No Space” (con gli archi arabeggianti sugli scudi), l’apocalittica “Shock In My Town” e “Povera patria”, che incassa gli immancabili applausi al suo verso più esplicito (“Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni”).
Poi si alza in piedi, si gode l'ovazione e precisa: “Sì, mi sono toccato il cuore a sinistra, vi starete chiedendo ‘ma questo che cazzo fa?’ (e giù risate in platea, ndr)… è il cuore della vita futura, mentre a destra c’è quello della vita terrena”.
Sempre ottime la resa acustica e le prestazioni dell’orchestra, che ridona la giusta cornice sonora ai brani, eseguiti in versioni molto fedeli agli originali. A rubare la scena è però, a sorpresa, uno dei Fleurs più riusciti, la cover de “La canzone dei vecchi amanti di Jacques Brel, esaltata dalla confezione sinfonica e da una performance molto sentita di Battiato, che poi chiude la prima parte del suo set con una intima “La stagione dell'amore” e una - stavolta impeccabile - “La cura”, che manda in solluchero le numerose donzelle in sala.
Poi Battiato cede la scena ad Alice, anche lei magrissima oltre che altera come sempre, con i suoi spessi occhialoni e la sua folta chioma nera. Dopo un paio di pezzi del suo repertorio recente - “Dammi la mano amore” (da "Charade", 1995) e la bellissima cover della Hardy di cui sopra (“Tante belle cose”) – arriva una folgorante “Il vento caldo dell’estate”, che ci riporta dritti dalle parti di “Capo Nord” (1980) e di quella contagiosa euforia synth-etica col marchio doc di Mastro Battiato. Un sound che continua a non lasciare scampo, così come la voce di Madame Bissi, protagonista di un’interpretazione maiuscola che non perde un grammo della potenza dell’originale. Idem per la successiva “Per Elisa”, il brano che mandò in gloria proprio il sodalizio con l’amico siciliano, addirittura nella cornice floreale di Sanremo.
La sopracitata “Veleni” e una intensa “Il sole nella pioggia” (dall’omonimo album-capolavoro del 1989, con cast stellare e versi trascendenti di Camisasca) chiudono un set pressoché inappuntabile, che ci restituisce in grande spolvero una delle migliori interpreti della canzone italiana.
“Ho rovesciato il tè di Franco, ho fatto un casino!”, ride prima di richiamare sul palco l’amico. Che però tarda ad arrivare. “Franco, ci sei?”. “Eccomi, stavo per addormentarmi”, riemerge lui da dietro le quinte. “Grazie, eh!” scherza lei. È tutto molto buffo e spontaneo, in quello stile un po’ stralunato che il cantautore di Jonia ha ormai assunto stabilmente nelle sue apparizioni. Guarda la tazza con aria interrogativa: il tè non c’è più. In compenso ci sono gli archi, che introducono trionfalmente “Nomadi”, primo in scaletta dei tanti duetti della serata. Erano magnifiche sia la versione di Battiato sia quella di Alice: il palco ce le riporta entrambe in una riuscita fusione in cui i due riescono a immettere tutta la carica spirituale di cui dispongono, al servizio del testo mistico di Camisasca e di quella melodia mediorientale da ko immediato. Emozioni che proseguono nell’omaggio al compianto Rocchi (una commovente “La realtà non esiste”), ma anche tra le suggestioni pietroburghesi di “Prospettiva Nevskij” e tra le onde sintetiche della miglior estate pop della musica italiana: "Summer On A Solitary Beach" (queste ultime due già incluse da Alice tra i suoi “Gioielli rubati” del 1985).
Battiato resta di nuovo solo per un secondo set in cui di fatto passa in rassegna il suo bestseller “La voce del padrone” con “Gli uccelli”, “Segnali di vita”, “Cuccurucucù”, “Centro di gravità permanente”, “Bandiera bianca” e una “Sentimiento nuevo” in duetto con Alice, richiamata per l’occasione sul palco.
Il gran finale, con il pubblico in piedi sotto il palco, parte con “Io chi sono?”. “State attenti, l’ultima volta che ho dato la mano a uno spettatore mi sono rotto il femore”, ammonisce Battiato ai fan che lo vogliono abbracciare, mentre piovono sul palco richieste di ogni sorta. “‘L’’animale”? Dai, facciamola, ecco The Animal”, scherza con l’orchestra. Poi finalmente raccoglie l’input che in tanti – compreso chi scrive – gli stavano gridando a squarciagola: “‘Stranizza d’amuri’? Ma ce l’avete le parti?”, chiede ai musicisti. Forse no, ma che problema c’è? Parte il piano, e si rinnova quel miracolo d’amore al tempo della guerra in siculo stretto: “E quannu t'ancontru 'nda strata/ mi veni 'na scossa 'ndo cori/ ccu tuttu ca fora si mori/ na mori stranizza d'amuri”. È standing ovation incondizionata.
Poi, con Alice di nuovo sul palco, l’immancabile duetto de “I treni di Tozeur” che dovrebbe chiudere i giochi. Ma il pubblico insiste, ed ecco allora l’ultimo regalo off-setlist, una “E ti vengo cercare” improvvisata là per là, con Alice che prima recrimina (“Questo è un colpo a tradimento, non si fa…”), poi si unisce al canto.
Ora è finita davvero: due ore di musica per 29 canzoni. Un pezzo (grosso) di storia della musica italiana sul palco. Due vecchi amici che si ritrovano, senza celebrazioni o ritualità prestabilite. Solo il feeling e la gioia di tornare a cantare insieme. Anche se il primo è un po’ più stanco di qualche anno fa e la seconda non è mai stata una trascinatrice di masse. Basta? No, avanza.