Vegliata dalla seicentesca villa Contarini, una tra le più scenografiche ville venete, antistante l'Anfiteatro Camerini dell'amena Piazzola sul Brenta (Padova), benedetta da un'ottima organizzazione e un clima ventilato che mai guasta, ecco la prima data del mini-tour italiano di Neil Young (in arrivo venerdì 15 a Roma, alle Terme di Caracalla, il 16 a Lucca e il 17 a Milano). Supportato dai nuovi comprimari Promise Of The Real (i due fratelli Lukas e Micah Nelson, il bassista Corey McCormick, il percussionista Tato Melgar, il batterista Anthony Logerfo) è - come ampiamente predetto dal live "Earth" (2016) - un concerto-predica sulla salute del pianeta, la riscoperta delle tecnologie ecologiche e la biodiversità, e l'opposizione a modificazioni genetiche, insalubrità e inquinamento. A fianco del palco c'è dunque posto per un "Neil Young Global Village" ad ospitare associazioni benefiche internazionali e locali (Lipu, No Ogm, Fairtrade, Organic etc).
E così lo show del Loner (cappellaccio nero e maglietta spiegazzata) che comincia in acustico aperto da figuranti vestite da campagnole che seminano e irrigano il palco mentre lui strimpella "After The Gold Rush", e chiuso da disinfestatori che spruzzano finti diserbanti, ha tutta l'aria di un monito, una cerimonia gravosa che, non per niente, culmina solennemente nell'organo-altare di "Mother Earth". Eppure, i cavalli di battaglia del country-folk "Harvest"-iano ("The Needle And The Damage Done", "Heart Of Gold") Young li scodella uno dopo l'altro sopra ovazioni da festa collettiva e persino qualche cenno di ballo.
Quando entrano in scena i Promise Of The Real invece comincia una progressione verso la distorsione chitarristica più estrema. L'inizio è comunque bonario e accomodante, con uno Young ancora ben piantato nel folk dei suoi più felici anni 70, dall'immediato post-Buffalo Springfield ("Hold Back The Tears") ai CSN&Y ("Helpless") alla sua gloria personale ("Old Man"). In questo frangente si comincia più che altro a testare la tenuta della band dei figli di Willie Nelson. Young affida per il momento a Lukas il compito di chitarra solista: il ragazzo risponde proprio emulando e toni e le cadenze del cavallo pazzo. Il polso fermo c'è, mancano ancora effetto e personalità.
Poi però, introdotto da "ora una hit uscita quando non eravate nati... non so neanche se ve la ricordate..." (le uniche parole del Loner in tutta la serata, a parte la formalità del "thanks for coming to see us tonight"), Lukas stupisce tutti quando si accomoda al piano - scordato - per intonare la modugniana "Nel blu dipinto di blu" in un italiano nemmeno disprezzabile. I maggiori sorrisi li strappa però sempre e comunque Young, quando s'improvvisa corista, dall'umore divertito ma col suo solito cipiglio stampato in faccia.
Accettato il regalino simbolico da mettere subito da parte, si passa alle cose serie. Finalmente Young imbraccia l'"old black" e il clima si arroventa: lenta ma rabbiosa "Alabama", sofferta "Words", semplicemente impeccabile "Powderfinger", cantabilissime e contagiose le due perline di "Ragged Glory" (1990), "Mansion On The Hill" e "Country Home".
È il cuore del concerto, che conduce al momento più epico di tutto il set: i quindici minuti di "Like A Hurricane". Aperto, come da regola dei live storici con i Crazy Horse, con la calata dall'alto del synth, e bombardato di elettrificazione, l'inno supremo del bardo canadese va in gloria con una coda d'improvvisazione caotica, spartita tra i suoi feedback lancinanti (Young che pure s'incazza con una cassa spia che a quanto pare non vomitava abbastanza rumore), il suo canto inceppato, le frustate dei comprimari, con Hendrix a vegliare dall'alto. In una parola, una piccola porzione di "Arc" (1990) che, peraltro, avrebbe potuto continuare ancora per molto se Lukas non avesse fatto cenno a uno Young in trance, perso in un filo esile di distorsione, che cotanta arditezza era più che sufficiente.
La voglia di sciorinare assoli e jam elettriche però continua con un'altra gloria, "Down By The River", anche questa tirata ben oltre i dieci minuti a suon di finte reprise e fraseggi scorticati. Inframezzano queste maratone altri piccoli episodi acustici e persino un siparietto (Young che distribuisce ciliegie a soci e astanti sotto il palco), per dotare il concerto del giusto equilibrio.
In ogni caso, una sterminata "Rockin' In The Free World" - ovviamente cantata in coro da tutto l'anfiteatro - e una "Like An Inca" (primo dei due bis) che non è "Cortez The Killer" ma che pur possiede un'interessante variante tribale solo voci-percussioni nel ritornello (buona passerella per le congas di un Melgar defilato ma pulsante), riprendono in mano la situazione per eccitare allo sfinimento.
Rimane la questione dei brani di "Monsanto Years" (2015), i momenti più importanti stando al concept della serata, relegati invece a un misero secondo piano. Per quanto Young li inserisca con furba nonchalance tra un classicone e l'altro, il calo in termini di reazione empatica da parte del pubblico è drastico, palpabilissimo. C'è comunque una "Seed Justice", finora mai incisa in studio, probabilmente l'unico momento in cui i Promise lasciano andare del tutto le titubanze da giovani apprendisti e rockano duro col Loner. La semina comincia a dare i suoi frutti.
Anche questo è comunque parte delle tre ore di show, uno saliscendi che - ça va sans dire - non darà grandissimi risultati in termini di sensibilizzazione ambientalista come forse prefissato, ma che nondimeno rimane un'attestazione potente (primo tra tutti per lo stesso artista) di forma praticamente invariata, prestanza fisica e artistica - pure un girotondo finale con la band, a mimare la rotazione terrestre - vocale, strumentale, umana.