È trascorso più di un decennio da quando i Vampire Weekend sono passati per l'ultima volta a trovarci. Undici anni per la precisione, che coincidono con l'inizio della fortunata saga indie-pop di questa band ormai definibile "grande" senza alcun imbarazzo. Il bosco del Circolo Magnolia di Milano è rinfrescato da una brezza leggera, retaggio di un temporale che solo poco prima sfiorava la città, e si è vestito a festa per l'occasione - e che occasione! Se la sono presa talmente comoda, i newyorkesi capitanati dall'eterno bambino Ezra Koenig, che per tutto il concerto sembrano quasi volersi scusare con il pubblico. Fa strano pensare di essere al cospetto di un gruppo che, sebbene fino all'uscita dell'ultimo disco "Father Of The Bride" sia rimasto forse un po' defilato nel panorama musicale, da sempre è abituato a suonare davanti a platee ben più numerose. L'accoglienza che il pubblico milanese riserva ai "vampiri" è comunque calda e vagamente nostalgica, come a un caro amico che non vedi da secoli ma su cui sai di poter sempre contare.
Già, perché quello che regalano i Vampire Weekend è un dolce tuffo nei ricordi per un buon numero di ragazzi e ragazze che per una sera, magari a trent'anni suonati, si ritroveranno a battere il tempo e ondeggiare sulle note di canzoni che in qualche modo hanno segnato i loro migliori momenti (o perlomeno quelli più roboanti). Scommettiamo che nelle vostre playlist, tra un esame di quinta liceo e una sessione d'esami all'università, ci avete piazzato almeno una tra "Holiday", "M79", "Cousins" e "A-Punk"?
Questa premessa è doverosa per circoscrivere il contesto emozionale di un concerto che, guardando i brani in scaletta e la durata (oltre due ore e mezza tirate e con pochissime pause), rasenta davvero la perfezione. Una band che, dicevamo, si è fatta "grande" in tutti i sensi: sette musicisti sul palco, due batterie e tre chitarre, una sezione ritmica da far spavento e la voce senza sesso e senza età di Koenig che non perde veramente un colpo.
I brani, dicevamo. Tutti noi immaginavamo che la setlist sarebbe stata cannibalizzata dai pezzi di "Father Of The Bride", disco tanto splendidamente pop quanto ostico da razionalizzare e scomporre nelle singole parti. Ebbene, ecco la gradita sorpresa: le prime quattro canzoni del lotto appartengono ciascuna a un disco diverso, e questo fa già capire come quella milanese sia molto più di una semplice tappa del tour promozionale. "Sympathy" è la nuova palla di cannone che scuote e apre le danze, "Cape Cod Kwassa Kwassa" non invecchia mai e ci consegna idealmente le chiavi di una bellissima estate, la gioiosa "Unbelievers" è solo la prima delle tante perle di "Modern Vampires Of The City" e "White Sky" ci riporta agli svolazzi barocchi del formidabile "Contra".
Da questo punto in poi, precisamente dall'acclamata doppietta di "Holiday" e "M79", i Vampire Weekend spiccano il volo e dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, di essere ben più di un semplice svago sonoro, un divertissement da poco, i semplici "sopravvissuti dell'indie" che molti ingiustamente pensano di loro. Chitarre limpidissime che zampillano, si sovrappongono e si rincorrono come bimbi dietro a un pallone, vitalismi e ritmi tribali che si contaminano di synth e giocano a rimpiattino con armonie vocali che "dicono" Beach Boys e "suonano" Peter Gabriel, pregevoli ritagli introspettivi che smorzano l'allegria e l'estasi dei momenti più tirati, intermezzi sonori (lo space-rock alla fine di "Sunflower", il punk-funk à-la Lcd Soundsystem e !!! di "New Dorp. New York." dei SBTRKT) che sorprendono e non deludono.
E ancora chitarre, un sacco di chitarre, tanto precise e diligenti nel loro incedere che quasi ci si chiede il segreto di questa perfezione estrema. In tutto questo ben di Dio, che somiglia più a un'oasi felice che a un concerto, perdersi è davvero cosa buona e giusta. I brani memorabili arrivano uno dopo l'altro, ogni canzone chiede un singalong da perderci la voce, un battimani ad accompagnarne l'incedere. A parte la metamorfosi di "Obvious Bicycle" che alza i giri rispetto alla versione in studio fino a confluire in "Son Of A Preacher Man" (sì, avete capito bene), tutti i passaggi e gli intermezzi sono riconoscibili tra mille, impressionanti nella loro coerenza con i dischi da cui sono tratti.
Oltre a tutto questo, di sicuro c'è che i newyorkesi divertono e si divertono. Non è un caso che, dopo i continui ringraziamenti al pubblico e alla doppietta di "Bambina" (suonata due volte di fila per l'omaggio linguistico nel titolo al nostro Belpaese), Ezra e compagni decidano di lasciare che addirittura tre degli ultimi cinque pezzi ("Giving Up The Gun", "I Think Ur A Contra" e "Oxford Comma") siano vere e proprie "request" del pubblico.
È ormai tardi, è quasi ora di salutarsi: c'è ancora tempo per la marcia di "Worship You" e il canto libero di "Ya Hey" che chiudono una serata con zero ombre e una marea felice di luce. E a noi non ci resta che lasciarci così, con la speranza di non dover aspettare un altro decennio per goderci questa band magnifica.
"For now, ciao ciao Vampire Weekend".
Lettera per un concerto perduto
di Gabriele Benzing
Ciao!
Avevamo comprato questi biglietti perché ci siamo innamorati sulle note di “Step”.
(S)fortunatamente, però, aspettiamo un bimbo e quindi non possiamo venire.
Aspetteremo.
Nel frattempo ti auguriamo di godertela e divertirti anche per noi e come avremmo fatto noi.
Ho ricevuto questo messaggio, insieme ai biglietti per il concerto dei Vampire Weekend.
Un messaggio scritto a mano, con carta e penna, alla vecchia maniera. E mi è venuto da pensare alle cose che siamo abituati a dare per scontate. Andare a un concerto, per esempio. Magari per una decisione dell’ultimo minuto. Ma poi ti imbatti nella storia di un altro, uno che non conosci nemmeno, e all’improvviso cambia tutto. Perché vedi cose diverse, quando provi a guardarti intorno con degli occhi che non sono i tuoi.
Insomma, questa è una lettera per i due innamorati di “Step”. Al Magnolia non c’erano, ma sono i loro occhi quelli giusti per guardare questo concerto: le canzoni contano poco, alla fine, se non portano dentro un pezzo di te.
Vedi apparire Ezra Koenig in felpa, bermuda e sandali e ti viene subito da pensare a un party da Ivy League. Ma no, i Vampire Weekend sono molto più di uno spot di Tommy Hilfiger. Quattro album in continua trasformazione stanno lì a dimostrarlo. Passo di flamenco e coretti easy listening, “Sympathy” dà inizio così a un vero e proprio caleidoscopio di generi: lampi electro-funk quando si accendono le luci di “New Dorp. New York”, tinte soul-gospel quando “Obvious Bicycle” va a finire in “Son Of A Preacher Man”. Potremmo essere a un concerto del tour di “Graceland”, a sentire le percussioni di “Cape Cod Kwassa Kwassa”. Oppure sotto il palco di un festival hard-rock, per le schitarrate di “Sunflower”. E poi tutti a saltare appena parte il trittico “Diane Young”/“Cousins”/“A-Punk”.
Che cosa dovrebbero sapere, i futuri genitori rimasti a casa, a parte quello che dice già una scaletta di per sé strepitosa? Che il nubifragio che doveva arrivare non è mai arrivato, e il riscaldamento globale si è preso un giorno di pausa. Che Ezra Koenig ama l’Italia (“I’ve always been an Italophile”, ha confessato a Pitchfork), e quindi “Bambina” la suona due volte di fila. Che per chiedere ai Vampire Weekend una canzone il requisito essenziale è avere un cappello (solo chi ne indossa uno viene interpellato per le richieste...).
Soprattutto, che “Father Of The Bride” supera senza incertezze la prova del palco: non solo grazie al Van Morrison apocrifo in chiave indie di “This Life” o allo slancio di una “Harmony Hall” che mostra già il carisma dell’inno (“I don't wanna live like this, but I don't wanna die”), ma anche per il respiro più universale di quella “Jerusalem, New York, Berlin” chiamata a concludere il set prima dei bis.
Canzoni di un gruppo che sente ormai di non avere più niente da dimostrare e che può permettersi anche di sfornare “an uncool album for an uncool time”, come ha scritto con la solita acutezza Carl Wilson su Slate. “Dad rock” e fiero di esserlo: per usare le parole di Koenig, “le grandi domande hanno già avuto risposta. Il rock è morto? Sì. La chitarra è ancora uno strumento rilevante? Non proprio”. Stasera, però, i fraseggi della sua chitarra suonano più cristallini che mai, mentre ci spiega ancora una volta il segreto per coniugare groove e arguzia. Il problema di essere cool lasciamolo pure agli altri.
E “Step”? Sì, l’hanno fatta. Forse il coro più partecipato di tutti. Ma è l’unica cosa di cui non posso proprio scrivere, in questa lettera in bottiglia. Le parole non funzionerebbero: il posto occupato da quella canzone è solo loro, dei due che la aspettavano insieme. Non faremo passare altri dieci anni prima di tornare, Koenig l’ha promesso. La prossima volta ci sarete anche voi, per sentirla con le vostre orecchie. Magari in tre. Chissà se saprà già dire almeno “ya hey”…
Photo credits: Andrea Pelizzardi
http://spanishsahara.com/
Sympathy
Cape Cod Kwassa Kwassa
Unbelievers
White Sky
Holiday
M79
Sunflower
Run
How Long?
Bambina
Bambina
(Encore)
Unbearably White
Step
Horchata
New Dorp. New York (SBTRKT cover)
This Life
Hannah Hunt
Harmony Hall
Diane Young
Cousins
A-Punk
2021
Jerusalem, New York, Berlin
Obvious Bicycle
Son of a Preacher Man (Dusty Springfield cover)
Giving Up the Gun
I Think Ur a Contra
Oxford Comma
Worship You
Ya Hey