Indagando le potenzialità insite nel legame fra musica e spiritualità, Pier Francesco Pacoda e Simona Eugenelo hanno ideato un formato di festival insolito, minimalista e originale, che ha girato dal 26 maggio al 27 giugno la provincia di Verbania visitando sette piazze situate in luoghi particolarmente caratteristici di un territorio incontaminato e bellissimo. Da Bee a Premeno, da Baveno al Sacro monte Ghiffa, il festival ha acceso i riflettori su piccole comunità e su spazi decisamente ancora nascosti, portando pillole di bellezza fatte di parole e canto. L’idea è stata quella di invitare sette artisti italiani e farli parlare, prima ancora che farli esibire, chiedendogli di mettersi a nudo, e in qualche modo di mettere se stessi davanti alla propria musica, dando maggiore importanza alle ispirazioni dalle quali provengono le canzoni piuttosto che alle canzoni stesse.
Così Massimo Zamboni, Vasco Brondi, Thonla Sonam, Paolo Benvegnù, Godblesscomputers, Bebo Guidetti e Cristiano Godano hanno accettato la scommessa, confrontandosi con un tema complesso come il rapporto con la propria spiritualità e finendo per raccontare se stessi.
Sul palchetto che vedeva ogni sera Pier Francesco Pacoda intervistare gli artisti, si è discusso spesso sul “luogo” da cui la musica proviene e su quali siano le dinamiche profonde che portano alla creazione, perché sempre, seppure il tema sia stato affrontato tramite angoli d’entrata diversi, il racconto della propria interiorità è andato a braccetto con il racconto della propria ispirazione. Quel processo che ha bene espresso Vasco Brondi, parlando del suo rapporto con la meditazione e citando David Lynch, spiegando come la pesca grossa, quella interessante, si faccia in profondità, dal fondo del fondo dell’oceano di se stessi.
Così, ognuno col proprio punto di vista, ha parlato della sacralità nella musica come elemento sempre presente, quantomeno in potenza, anche nella musica leggera. Come una possibilità che poi sta al singolo autore decidere se esplorare e in che misura. Quella potenzialità che ha la musica di farsi “porta”, nella sua essenza, che in Italia è stato Franco Battiato più di tutti a mostrarci. La porta verso una sorta di sorgente silenziosa, verso un qualcos’altro che non si suona e non si canta, perché, come scriveva Giovanni Lindo Ferretti, “L’amore non si canta, è un canto di per se’. Più lo si dice, meno ce n’è”.
È con questo profondo obiettivo ogni sera il Festival ha espresso una tinta diversa, anche per via delle personalità davvero eterogenee coinvolte. Si è passati dai momenti più istituzionali come i canti di apertura dei monaci tibetani del Kumpen Lama Gantchen o l’introduzione di Lama Michel Rinpoche sul monte Ghiffa, fino all’ironia di Paolo Benvegnù e alla schiettezza di Cristiano Godano, che è salito sul palco dichiarandosi privo del dono della fede ma limitandosi a parlare dei brividi sulla schiena che gli danno certe montagne e certe persone, fino ancora al modo di esprimersi coltissimo di Brondi che ormai gioca continuamente a citare gli altri, poeti, scrittori e filosofi, in una sorta di collage postmoderno.
E poi la musica. Perché ogni volta dopo le parole c’era la musica, che si sviluppava con brevi esibizioni, tutte rigorosamente in acustico, quasi sempre con chitarra e voce, pensate per non smarrire quel filo di intimità che ogni volta nella prima parte si riusciva a creare col pubblico. E anche qui ci sono state interessanti scoperte e novità, come il lavoro di Cristiano Godano che ha adattato in anteprima alcuni brani del suo “Karma Clima” (Marlene Kuntz) a una versione unplugged, o la magia del paesaggio sonoro espresso dalle campane tibetane di Thonla Sonam.
Ma l’esibizione che più di tutte ci sentiamo di segnalare è stata il reading sospeso fra musica, poesia e immagini di Massimo Zamboni, che con una naturalezza davvero sorprendente ha declinato il tema della spiritualità senza parlare mai esplicitamente di quest’ultima, ma agganciandosi semplicemente al racconto del proprio vissuto. L’ex-Csi ha parlato di se stesso, della propria quotidianità immersa nella natura e dei propri viaggi, senza far avvertire alcuna soluzione di continuità fra l’intervista iniziale con Pier Francesco Pacoda e l’esibizione artistica vera e propria, tanto quest’ultima è stata connotata e pregna , a sua volta, di vita reale. Così in un flusso, in una splendida serata verbanese, l’artista leggeva appunti sparsi su aneddoti anche profondamente privati, sulle montagne, sulle stelle e sui laghi che ha visto in Mongolia in occasione del suo secondo viaggio con la figlia, mentre sullo schermo passavano le immagini, probabilmente girate da lui stesso, e in sottofondo la sua musica: strumentale , cristallina, ritmica, mongola e contemporaneamente occidentale, mischiata volontariamente alla vita, e libera, appunto come un flusso, come soltanto i grandissimi sanno fare, dal bisogno di piacere.