Esiste una sorta di energia vitale, in certa musica. Un'energia che, innescando un intreccio di emozioni universali, ti afferra l'anima e la porta lontano. È un canto intenso e diretto, che trasuda brutalità e tenerezza, qualcosa di primordiale che pulsa sotto ogni storia individuale: un abbandono momentaneo ma catartico, che ci rigenera mentre siamo persi nei paesaggi sconfinati dell'immaginario. Parlo di quegli album e di quelle canzoni che sembrano averci scolpito il cuore, che abbiamo riempito e svuotato dei nostri deliri, facendoli suonare nei capitoli della nostra vita.
Nella mia auto, equipaggiata con un anacronistico lettore cd che accoglie giusto una manciata di dischi (e la scelta è delicata), i Mercury Rev sono sempre presenti: so di doverli avere perché la loro musica è abitata da questa energia che rinnova il rito e mi trasporta... lontano.
Frutto di un'insolita simbiosi tra antitesi musicali, la carriera del duo Jonathan Donahue/Grasshopper ha scardinato qualsiasi coerenza formale: se agli esordi con "Yerself Is Steam" (e il non meno valido "Boces") ha confezionato raga dissonanti, improvvisazioni distorti e scatti lisergici in esperimenti di vaudeville urbano, "Deserter's Songs" rappresenta una svolta che sfiora una vera e propria capitolazione alle logiche del pop melodico. Una ricerca senza tregua tra caos e redenzione (accostabile al travaglio di Neil Young), nella quale il pop per le masse si trasfigura in un rituale di evasione dalla realtà.
Una filastrocca, qualcosa di cui fidarsi (Beach Boys, Beatles), la voce vulnerabile e amatoriale di un amico (Daniel Johnston) che, come un filo di gomitolo, si srotola su architetture orchestrali liquide e in continua metamorfosi tra le luccicanti scenografie di una Broadway in chiave disneyana e i sofisticati arrangiamenti barocchi di Van Dyke Parks, fino a toccare, nei momenti di maggior caos, il bubblegum zuccherino dei Flaming Lips. È un’eterogenesi dei fini, una serendipity della canzone, in cui l'incoerenza degli elementi concorre a un'alchimia che non può ricadere sotto la sola definizione di dream-pop: nella sua ricetta custodisce qualcosa in più, qualcosa di accidentale e oscuro.
L’occasione del tour è l’uscita, lo scorso settembre, di "Born Horses", ultima tappa del loro percorso. Certamente non essenziale, ma senza dubbio degna di ascolto: sia per l'inedito approdo di Donahue al parlato e ai registri bassi del cantato, sia per alcune novità nel sound, che a tratti scimmiotta i reading fumosi nei night di New York, a tratti ammicca meccanicamente agli ultimi War On Drugs.
È il giorno di Sint Maarten e in certi angoli dei Paesi Bassi il crepuscolo si accende di luci tremolanti: piccole lanterne danzano come lucciole nell'aria, portate dalle mani dei bambini. Le loro voci, ora canto, ora risa, si mescolano al respiro della sera, e ai miei occhi da expat tutto è trasfigurato in una cerimonia segreta. Ho saputo del concerto solo qualche giorno fa. Mentre mi riparo dal vento gelido sul traghetto che dalla stazione centrale di Amsterdam solca il canale verso la zona nord della città, penso che non so davvero cosa aspettarmi.
La location è il Tolhuistuin, un complesso culturale moderno che ospita una piccola sala di pareti nere e rispetta tutti i dogmi del locale indie-rock, con la piacevole aggiunta di una piccionaia che dona tridimensionalità e la trasforma in un teatrino post-industriale. Pur non essendo una cornice affascinante (è più simile a un non-luogo, piuttosto) ha comunque tutto ciò che serve per godersi lo spettacolo.
Io e i miei compari entriamo e prendiamo subito posto sotto il palco: la platea è curiosamente composta perlopiù di uomini calvi e qualche bestemmia nelle retrovie mi fa annusare la presenza di connazionali. Il compito di scaldarci è affidato a Nina Savary, cantautrice francese, una Laura Marling con il vangelo degli Stereolab. Il suo opening act è funestato da problemi tecnici e non molto coinvolgente (suona sulle tracce pre-registrate del disco, operazione che mi ha sempre ricordato il karaoke), ma la sua musica sembra valere più di così: una volta a casa, forse, la spulcerò.
Liquidata l'apertura, c'è giusto il tempo di accordare gli strumenti che un proiettore inonda la sala di colori e immagini non identificate (forse i cortometraggi degli esordi, da allievi di Tony Conrad?), supportate da un raga sciamanico.
Quando il pubblico ha gli occhi puntati sul palco, escono fuori prima i collaboratori, tra cui il tastierista/flautista/sassofonista Jesse Chandler, ex-Midlake, e la tastierista Marion Genser, attuale compagna di Jonathan. Poco dopo, ecco le star: Grasshopper con la chitarra in mano, occhiale da sole spavaldo e look disinvolto fermo ai 90; Donahue in giacca, panciotto e camicia bianca dalle maniche più lunghe del dovuto, da bohémien romantico con tutti i crismi, che si avvicina al microfono con passo incerto e sorriso sincero, si aggiusta il fazzoletto al collo (sbarbato) e sistema il cappello da chauffeur.
Ci siamo: la scalata di note di piano di "The Funny Bird" apre il concerto e il frontman si dimena. Con movenze a metà tra il direttore d'orchestra e lo stregone, cerca di manovrare gli strumenti, la sua voce plana sui vibrati elettrici delle chitarre che crescono fino al primo intermezzo; appena le luci lo illuminano, Grasshopper accende i pedali e comincia a contorcersi in un solo irrequieto, girando intorno a poche note spoglie. Donahue gli lancia invisibili saette con gesti esoterici, mentre sbuffa e si piega. Il primo brano finisce con gli ascoltatori intontiti.
Si va avanti con un altro paio di hit, alternate a sfarzosi interludi free-form, che stimolano l'attenzione più che diluirla, in cui si accavallano flauto traverso, cornetta, sassofono, clarinetto, sintetizzatori (sono in ben 7 sul palco) e Donahue stesso, che imbraccia una Telecaster sbucciata e malconcia a rimpinguare la cornucopia di timbri.
Senza quasi rendercene conto, ci trascinano nel loro mondo onirico, da cui emergiamo appena in tempo per riconoscere il passo pesante del primo accordo di "Love Sick". È a questo punto che la loro logica frammentaria comincia a rivelarsi, oscillando tra un divismo convenzionale e un'anarchia amatoriale che flirta con la demenzialità zappiana, in un viaggio surreale reso unico dal loro approccio spontaneo. Sembrano popstar che non hanno ancora idea di cosa vogliano diventare da grandi, ma è proprio nel loro essere senza filtri che si intravede il cuore pulsante della performance.
Una riprova di ciò avviene subito dopo. Vien fuori che l’altro chitarrista (JB Mijers, in completo di pelle e con un sorriso a 32 denti da turista ai tropici) è olandese: ovazione del pubblico. Mijers si avvicina al microfono e pronuncia qualche parola in lingua locale per introdurre la vera sorpresa: Carice Van Houten, attrice di fama internazionale che in passato ha poggiato i piedi anche nella musica, con una comparsata nel precedente lavoro della band. Il suo viso comunica una stanchezza profonda, nondimeno ci intrattiene per la durata di due interminabili cover, cantando distratta, mentre sbircia i testi dal cellulare.
Archiviata questa parentesi da sagra di paese, che ci lascia alquanto perplessi, si torna al piatto principale, con l'emozione che, nonostante tutto, è ancora palpabile.
Da qui alla fine è l'apoteosi: i brani dell'ultimo disco vengono suonati con evidente trasporto emotivo, la voce di Jonathan si commuove, le sue mani tremanti si abbarbicano all'asta del microfono, unico appiglio che ha mentre tira fuori tutta la fragilità del genere umano. Non ci sono più pause, i brani si susseguono alternati a nebulose di suoni, i musicisti non scherzano più, i volti si fanno seri, Grasshopper parla con poche note, nude e trascendenti.
Il colpo di grazia, come in un gioco pirotecnico, è assestato dalla tripletta conclusiva "Holes"-"Opus 40"-"The Dark Is Rising", le hit stropicciate e senza tempo di un gruppo seminale.
Le luci si spengono, non c'è bis e va benissimo così: voglio uscire con questo sapore in bocca, grondando vertigini. Una notte sospesa tra disordine e catarsi, senza appigli, come la vita di tutti i giorni. Forse non hanno ancora trovato la loro direzione definitiva, ma proprio per questo li amiamo, eternamente irrisolti e ancora più affascinanti.