Tutte le strade portano a Roma, o almeno così dice “All Roads Lead To Rome”, un vecchio brano degli Stranglers che si rifà al noto proverbio. Eppure in cinquant'anni e passa di carriera l'ex-cantante e chitarrista del gruppo, Hugh Cornwell, non è che si sia esibito chissà quante volte nella Città Eterna. I suoi concerti tenuti qui si contano sulle dita di una mano: i fan più attempati lo ricorderanno impegnato, con la band a ranghi completi, in una performance incendiaria nel 1980 ai giardini di Castel Sant'Angelo, o magari nel 1985 al Teatro Tenda Pianeta. Più di recente viene in mente la fugace sortita del 2009 a Stazione Birra per promuovere il disco solista “Hooverdam”, affiancato nell'occasione da Caroline Campbell e Chris Bell, che avevano lavorato con lui al progetto anche in studio. Oltre a ciò si segnala poco altro, per questo la data del 29 aprile al Monk – terza tappa italiana dopo Bologna e Milano - è un sogno che si realizza per chi ancora non lo aveva mai potuto ammirare dal vivo.
Il pretesto è stato l'uscita, nello scorso ottobre, di “All The Fun Of The Fair”, doppio album live che dà il nome al tour attuale e che il cantante da qualche settimana sta sponsorizzando a zonzo per l'Europa, stavolta assieme a Pat Hughes (basso elettrico e backing vocals) e al fido batterista Windsor McGilvray, con cui aveva già avuto a che fare su “Beyond Elysian Fields” nel 2004 e su “Dirty Dozen” nel 2006.
Dopo aver lasciato gli Stranglers nel 1990, Cornwell ha intrapreso un percorso solista meno altisonante e forse sconosciuto ai più, ma altrettanto curioso e ricco d'inventiva. D'altronde il buon Hugh ha sempre dimostrato di essere un outsider intelligente e totalmente sui generis, colto, dissacrante, poetico, ironico e divertente allo stesso tempo, capace di spaziare con disinvoltura dal punk rozzo delle cantine alle tastiere luccicanti della new wave, dagli inni underground alle hit da classifica.
Insomma, chi è cresciuto negli anni Ottanta, o giù di lì, fa sinceramente fatica a non apprezzarne le straordinarie doti di musicista e songwriter perennemente disallineato e fuori dagli schemi. La serata promette di essere un'autentica manna dal cielo e, come ogni evento che si rispetti, è preceduta da un acquazzone: aspettiamo una mezz'oretta che spiova seduti in macchina, tanto fino alle 20 le saracinesche del locale sono abbassate, poi spunta un arcobaleno benaugurante e ci affrettiamo all'ingresso per comprare i biglietti. Meno male che ce ne sono ancora, e appena ci stampano addosso il timbro di entrata corriamo ad acchiappare i posti in prima fila: il bello dei club di piccola o media grandezza è che se ti sbrighi, ti ritrovi a due metri dai tuoi beniamini.
Manca almeno un'ora e non sono previsti opening act, così inganniamo l'attesa sulle note di “My Life In The Bush Of Ghosts” di Brian Eno e David Byrne, trasmesso in sala a discreto volume dagli altoparlanti. Come intrattenimento è certamente monumentale, la vera pagina di storia però è quella che si sta per scrivere sul palco e inizia quasi in perfetto orario, alle 21,05. D'improvviso si spengono le luci e dalla penombra emerge la sagoma di Hugh Cornwell che attacca gagliardo con le schitarrate di “Coming Out Of The Wilderness”, brano d'apertura del suo ultimo album di inediti del 2022 “Moments Of Madness”, dal quale proporrà via via anche l'autobiografica “When I Was A Young Man”, “Too Much Trash” e la title track omonima dal taglio reggae, che ribadiscono come, a livello creativo, la voglia di osare e rimettersi in gioco non sia andata affatto scemando dopo l'addio agli ex-compagni Jean Jacques Burnel, Dave Greenfield e Jet Black. Né mancherà di omaggiare più volte, durante il corso dello spettacolo, la magnifica saga dei meninblack - così i quattro venivano chiamati all'epoca - visto che, come aveva anticipato alla vigilia in un'intervista, “lo show sarà costituito per circa un terzo da canzoni degli Stranglers. Ho suonato con loro per diciassette anni, sono una parte importantissima di me che non posso cancellare, non eseguire nulla di quel periodo sarebbe un po' ipocrita”.
Un significativo sguardo a quella gloriosa traiettoria comune arriva con “Tank” e “Nice 'N' Sleazy”, tratte dal terzo Lp della band, “Black And White”, con cui nel 1978 cominciarono a intrufolarsi le tastiere all'interno di trame punk scarne e feroci: ne sarebbe derivato, di lì a breve, un sound del tutto peculiare che avrebbe fatto faville negli anni a venire. Stasera i sintetizzatori non ci sono, ma la resa è comunque propizia se si considera che “agli esordi eravamo un power trio, io alla chitarra ritmica, J.J. al basso e Jet alla batteria, per cui i pezzi sono facili da riadattare. Quando a noi si unì Greenfield portò alcuni abbellimenti, ma non cambiamenti sostanziali”, ha ulteriormente specificato in sede di presentazione il cantante, che sfoggia una silhouette smagliante a dispetto delle settantasei primavere che compirà il prossimo agosto.
Purtroppo Greenfield e Jet Black, come molti sapranno, per diverse ragioni non sono più dei nostri da qualche tempo, mentre l'altro superstite Burnel prosegue la propria avventura alla guida di una line-up degli Stranglers radicalmente rinnovata. Pat Hughes e McGilvray, designati in qualche modo a sostituirli, ne fanno le veci in maniera egregia: non è il solito complimento di facciata, lo testimoniano le prestazioni sicure che forniscono sulle successive “Wrong Side Of The Tracks”, che cita nell'intro “Crosstown Traffic” di Jimi Hendrix, e “Delightful Nightmare” (si trovano entrambe su “Hooverdam”, già menzionato poc'anzi).
Un altro prezioso tuffo all'indietro è rappresentato dall'evergreen “Golden Brown”, la canzone probabilmente più famosa (e fraintesa) mai partorita dalla penna di Cornwell, che ha voluto fare chiarezza una volta per tutte sul testo, rivelando che “ha una doppia valenza, parla di eroina ma anche di una ragazza, tutte e due mi hanno regalato cose piacevoli”. Per sopperire all'assenza dei synth il terzetto la rielabora in una deliziosa versione acustica dal taglio jazz, che ben si addice all'originale struttura da valzer. Non tutti dall'incipit la riconoscono, ma poi scrosciano applausi convinti, gli stessi che sottolineano le altre scelte dal repertorio classico degli "uomini in nero", in particolare “Nuclear Device (The Wizard Of Aus)”, la minacciosa “Dead Loss Angeles” e la pirotecnica “Duchess”, prese tutte e tre dallo strepitoso “The Raven” del 1979, ritenuto a buon diritto una delle pietre miliari del post-punk di quegli anni (è l'album del celeberrimo corvo nero in copertina, tanto per intenderci).
Con “Bad Vibrations” e “Totem And Taboo” si torna ad attingere invece da un altro lavoro solista pregevole ma passato stranamente sotto silenzio, l'omonimo “Totem And Taboo” del 2012, che era stato prodotto dal compianto Steve Albini (il titolo è ispirato da una raccolta di saggi di Sigmund Freud). Meriterebbe maggior visibilità, esattamente come “Monster” del 2018 da cui vengono ripescate l'ottima “Pure Evel” (gioiellino rock dedicato a Evel Knievel, motociclista-stuntman che negli anni 70 visse nel Montana) e “Mr. Leather”, cordiale letterina indirizzata da Cornwell a Lou Reed, che narra di un loro incontro a cena già organizzato a New York e annullato a causa di un'influenza che colpì entrambi (“Caro Lou/ per quanto ci provassimo/ la bussola non lo ha permesso/ la febbre è arrivata di notte/ ci ha messo ko”). Peccato, due talenti così eccentrici e sregolati chissà quante cose avrebbero avuto da dirsi...
Si prosegue con “Another Kind Of Love” (dal debutto solista del 1988 “Wolf”) e con la coinvolgente “Live It And Breathe It”, che esalta il pubblico, trascinandolo a fare i cori. A proposito di “Moments Of Madness”, prima del break si consuma un inatteso attimo di follia: uno dei fan, evidentemente su di giri, sale sul palco per abbracciare e dare un bacio al cantante, che non gradisce e lo scansa infastidito. Con l'intervento degli altri musicisti e della security il tutto si risolve senza troppi problemi, quindi, dopo una breve pausa, è il momento del bis che si apre con “Big Bug”, una vera chicca. Si tratta di un brano inciso nel '79 insieme a Robert Williams, membro della Magic Band di Captain Beefhart: l'idea nacque quando Cornwell, approfittando di un tour nordamericano degli Stranglers, partecipò a tre concerti consecutivi di Beefhart, stringendo una profonda amicizia col batterista. Insieme avrebbero concepito lo stravagante Lp a due “Nosferatu”, al quale presero parte tanti ospiti illustri, tra cui Ian Underwood dei Mothers Of Invention di Frank Zappa, Ian Dury e i fratelli Mark e Bob Mothersbaugh dei Devo.
Un altro momento clou è la dolcissima e malinconica “Strange Little Girl”, una delle canzoni in assoluto più iconiche degli anni Ottanta: allora entrò nell'immaginario dei teenager grazie a un indimenticabile video, girato a Londra tra Cambridge Circus e Liverpool Street , che ritraeva un gruppetto di ragazzine dalle creste punk in fuga da casa, via dai pregiudizi della mentalità di paese. Che brividi riascoltarla qui stasera, vorremmo riavvolgere il nastro, ma non c'è tempo per la nostalgia, visto che subito dopo parte all'impazzata una succulenta “Lasagna” in salsa mex (ancora da “Moments Of Madness”): ora ci adeguiamo al mood piccantino e battiamo tutti insieme le mani a ritmo, capitanati da un losco figuro alle maracas che nel frattempo ha fatto irruzione sul palco travestito da galletto mariachi.
L'arrivederci finale è affidato simbolicamente a “Goodbye Toulouse”, tratta dal primissimo album degli Stranglers “IV/Rattus Norvegicus”, dal quale il loro mito ebbe inizio, una cinquantina di anni fa.
Possiamo andare, ma chi c'era ricorderà a lungo questa serata, incorniciata per di più dalle foto e dagli autografi che Cornwell ci concede nel backstage, intrattenendosi gentilmente con noi per un'altra quarantina di minuti. E pensare che nel 1977 gridava “No more heroes anymore!”: adesso sappiamo, per fortuna, che nella musica qualche supereroe esiste ancora.