Il rock che si ciba di luoghi comuni, di assiomi, di certezze incontrovertibili, irrinunciabili, irrefrenabili, irriducibili. Una di queste, tra le più popolari, e non potrebbe essere altrimenti vista la materia: gli
Ac/Dc fanno sempre lo stesso disco, però lo fanno bene, sembra facile ma provateci voi etc etc… Quel misto di
boogie, di
Chuck Berry sparato a 3000 all’ora sulla variante Ascari, di rock’n’roll elettrico talmente veemente da risultare parossistico, a petto in fuori, ma senza pose eroiche, che tanto non ce n’è bisogno, basta la parola. Insomma, 45 anni di sudori, botte da orbi e di gloria che si trasforma in routine, perché tutto si assomiglia, come sempre, come dal principio, un modello portato alle estreme conseguenze. Invece non è vero.
Prodromi
Una strada nel zona sud di Londra si trasforma in un crocevia inaspettato per le sorti di milioni di persone, in primis per Bon Scott, petto peloso in fuori, pacco in perenne evidenza, atteggiamento ridanciano, una sorta di riedizione del buffone di corte, protagonista assoluto della sua arte circense ma senza divismi o altezzosità. È lui per più di un lustro l’immagine popolare e popolana di un combo di scozzesi in trasferta australiana, dediti alla riletture delle ancora giovani scritture rock’n’roll blues, tra donne esasperate, uomini testosteronici, gare di braccio di ferro, qualche scazzottata, abbracci fraterni, sbronze colossali e ironia che si fa beffe di qualsiasi postura intellettuale. E Bon beve, e con lui i suoi compagni di ventura, ma lui molto di più, una situazione che crea un freno psicologico al suo alter ego, un nanerottolo vestito da scolaretto che ogni sera si fa il culo come se non ci fosse un domani, scorrazzando sul palco, madido di sudore e di energia che pare illimitata.
Bon e Angus sono la cifra stilistica degli Ac/Dc, con l’altro fuscello, Malcolm il nervoso, ne rappresentano l’anima. Si ritrovano ogni giorno, dopo una classica nottata alla Bon, fatta di bagordi e sesso sfrenato: riff su riff e storie sconce. Poi si sa come possono andare queste cose: prima ti diverti e poi la paghi. E Bon la paga in una stradina del sud di Londra, nella notte tra il 18 e il 19 febbraio del 1980, dove trova la morte, silenziosa, nel sonno, bagnata da qualche decina di pinte. Proprio in quei giorni, ore, stava mettendo a punto, con i due eterni fratellini, i primi tasselli del nuovo album. Peccato. E invece no, dal punto vista artistico s’intende.
La svolta
Gli Ac/Dc all’alba degli
Eighties hanno trovato il bandolo della matassa, o almeno la strada verso le classifiche, e quindi verso la gloria. Dopo una serie di frustate ben assestate, "Let There Be Rock", "Powerage", un live tachicardiaco, hanno cominciato a irretire un bel po’ di gente, qualche collega molto prestigioso ne perora pure la causa e se quest’ultimo si chiama
Keith Richards, allora la strada deve essere per forza di cose quella giusta. Sono determinati, sicuri di loro stessi, quasi altezzosi, non hanno mezze misure, ecco perché fanno fatica a trovare un consigliere, anche detto produttore. Poi però bussa alla porta Robert John "Mutt" Lange, un sudafricano lungo crinito, il quale cambia la vita a loro e pure a se stesso, nonché ai succitati milioni di avventori di cui sopra. Insieme tracciano la strada per l’inferno, che però è chiaramente il paradiso. "Highway To Hell" è il
passpartù atteso verso il successo americano e, quindi, mondiale. Rispetto ai predecessori suona più compatto, ritmico, potabile, melodico, stentoreo, moderno, senza esitazioni, ma senza perdere un’oncia della credibilità fino a quel punto conquistata. È insomma accaduto qualcosa di diverso, ma non si tratta di una svolta epocale. Per quella c’è bisogno di una tragedia che squarci la tela dei
clown.
Primavera 1980
Una band allo sbando. Come fare senza il
frontman, l’amico, il “fratello”? Ne vale la pena? Ne abbiamo voglia? Partono le audizioni. Si presenta di tutto e di più. Ma poi Lange suggerisce di contattare un certo Brian Johnson, un britannico con il capello alla Andy Capp, cantante dei Geordie da Newcastle, boogie rock, raucedini soul e qualche spruzzata di
glam. Si trovano, provano qualche traccia, si salutano, si ritrovano e decidono che possono dividere la tavola. La svolta, che sembra un mistero, ma che invece sancisce una certezza: nella storia della musica pop rock il primo elemento che viene avvertito, che diventa familiare, che traccia la linea, che scrive le coordinate, intorno al quale tutto ruota è la voce. L’ugola di Johnson è diversa, non solo da quella di Bon, e cambia tutto lo spettro sonoro e forse anche le intenzioni alla base di una band già classica nelle sue movenze.
Back In Black
Dieci canzoni, non un riempitivo, tutto suona chiaro nel buio imperante, quel nero che deve essere inteso come un tributo a Bon. Ma Bon non c’è più, la sua guasconeria, il ritmo sculettante e sorridente, le battute da bar. Sulla copertina di "Highway To Hell" sono tutti in posa minacciosa, tranne Bon, che ride. Non c’è più Bon. Ci sono delle campane, c’è un riff drammatico, tetro, è sempre blues, ma sembra qualcosa di differente, nell’anno della prima affermazione della New Wave Of British Heavy Metal.
Gli Ac/Dc non sono metal, ma da questo momento, in questo momento ne scrivono un intero capitolo ed è decisivo. Brian ai microfoni è esasperato, collerico, rende i risaputi 4/4 ancora più martellanti, e come se gli spartiti assumessero connotati maligni, sulfurei e non per scherzo. L’andamento compassato di “Hell’s Bells” cresce in maniera lenta e progressiva insieme all’isteria del nuovo arrivato, l’atmosfera è per la prima volta drammatica e non cessa neanche quando i ritmi salgono e si accodano ai precedenti scottiani.
What do you do for money, honey?
How do you get your kicks?
What do you do for money, honey?
How you get your licks?
Non c’è più nulla di peccaminoso, di sensuale, di pornografico, sembrano parole accusatrici, magari con un coltello affilato in mano. E i compagni vengono trascinati, si accodano, spingono come dei maniaci, sembrano una gang pronta a menare le mani, a travolgere, non più in maniera maleducata, bensì violenta.
Oh, she's using her head again
She's using her head
Oh, she's using her head again
I'm just a givin' the dog a bone
Givin' the dog a bone
Brian urla e i controcanti sembrano dei richiami di battaglia, ogni volta più forti e assordanti. Le evidenze si fanno certezze concrete nel momento in cui parte il
riff bicordale di “Let Me Put My Love Into You”, che in quanto tale dovrebbe risultare spartano, spoglio, invece sembra un’orchestra
wagneriana, epica, enorme, e si intensificano ancora di più, perché sembra che il limite non debba palesarsi mai, su “Shake A Leg”, una furia, un panzer dotato però di un’agilità mortale per gli altri. Un aggiornamento che riguarda anche Angus, colui che un pomeriggio disse “
Eddie Van Halen è bravo per carità, ma sembra suonare sempre di fronte allo specchio, allora lo puoi fare anche da solo”, ma intanto esplode un solo furibondo come il
C’mon!!! di Brian, velocissimo, acrobatico, una fucilata.
Back in black
I hit the sack
I've been too long, I'm glad to be back
Yes, I'm let loose
From the noose
Un tributo che si trasforma nella dichiarazione d’intenti di un gruppo, di una scena, di un’epoca, scatenata, libera di affondare e guai a chi osa frapporsi. E Bon? C’è anche lui, dura un attimo, ma è un attimo che non finisce mai anche perché diventa la più grande hit del gruppo, “You Shook Me All Night Long”, come una pausa, un divertissement, che neppure la foga di Brian riesce a minare. Johnson che in coda conferma le stimmate del fuoriclasse, a cui molti duri sul serio o per finta dovranno rendere grazie negli anni a seguire: “Rock And Roll Ain’t Noise Pollution”, un soul blues, per corde vocali sradicate, una sigaretta accesa come incipit, uno start più controllato, giocato su toni più gravi e per questo ancora più intenso e poi la furia. Andy Capp è la terza chitarra degli Ac/Dc, una vera e propria ascia.
Il mistero di “Mutt” Lange
Un album che suona come l’apoteosi dell’enfasi, un punto di non ritorno, un volo senza protezioni, un la va o la spacca che diventano la stessa cosa e si nutrono a vicenda. E 50 milioni di copie vendute. E quando le luci si spengono, per un attimo, si staglia in penombra la figura del correttore di bozze, dell’organizzatore di energie, del futuro ingegnere: Robert John "Mutt" Lange. Un produttore illuminato, i risultati non mentono: dal
refresh dei
Foreigner all’ingresso degli anni 80 alle architetture escogitate per i Def Leppard, fino alla
consolle tinta di rosa nel finto country di Shania Twain, milioni di copie, successi da record, imbattuti e imbattibili. Lange decisivo a tal punto da fagocitare i suoi protetti, rendendoli celeberrimi ma poi anziani precoci, o comunque cartoline sin troppo aderenti alla loro epoca: si pensi al synth-pop
super-chic dei
Cars olimpionici, o alla doppietta "Pyromania" e "Hysteria", con ogni nota ripetuta fino allo sfinimento, rifinita, calibrata, analizzata, all’omologazione di Bryan “Robin Hood” Adams. L’inizio di tutto fu proprio "Back in Black", sui solchi del quale Lange preparò il suo decollo, ma dove non si avverte nulla delle sue mosse seguenti.
Era la primavera del 1980, c’era un’aria diversa, scura, irripetibile. Si udirono le campane a morto e poi nulla fu più lo stesso.
07/03/2021