Solo nella musica rock certe cose sono possibili, concepire un capolavoro come pura soddisfazione di un bisogno fisiologico è una di queste. In un’arte dove non ci sono regole, si può benissimo creare un’opera per il solo scopo di soddisfare un impulso primordiale, per liberarsi di un peso, a patto che quel peso lo si senta per davvero.
I Flipper di cose da raccontare ne avevano, basta la sola provenienza geografica a testimoniarcelo: venivano dalla San Francisco dei primi anni Ottanta, ormai un relitto della vecchia capitale del movimento hippie, un’area metropolitana teatro di criminalità, bande di giovani allo sbando e traffico di droga. E di droga devono averne vista molta, i Flipper, non l’Lsd dei figli dei fiori, ma l’eroina dei ragazzi senza futuro del proletariato urbano, quella droga che ti succhia lentamente la vita scorrendoti nelle vene (piccolo aneddoto: “Flipper” era il nome che un loro amico tossico dava a tutti i suoi animali domestici, per non dimenticarsi il loro nome).
La loro musica è il chiaro riflesso della loro tossicodipendenza e della loro condizione sociale: un vortice di acqua torbida che scorre lento e inesorabile, emettendo un suono putrido, paludoso, saturo di dissonanze e animato da una cadenza ripetitiva e lentissima, al limite del sonnambulismo; un flusso sonoro che ben rimanda agli effetti collaterali della sopraccitata droga. Non è difficile immaginare l’impatto che una musica così fragorosa poteva avere nei primi anni Ottanta, anche nella scena underground californiana abituata agli eccessi dell’hardcore punk e a band borderline come Crime e Screamers; fu proprio la loro non convenzionalità (il puntare su una musica lenta e monocorde anziché su un punk furioso e velocissimo) a farne un caso unico nel rock alternativo americano, tanto da renderli più accostabili ai primi Swans piuttosto che ai coevi Black Flag.
I quattro Flipper (Ted Falconi alla chitarra, Steve DePace alla batteria, Bruce Loose e Will Shatter alternati al basso e alla voce) sembravano fare di tutto per liberarsi del loro background hardcore: pur non essendo particolarmente dotati tecnicamente, preferivano accentuare la loro imperfezione formale rallentando all’inverosimile i brani, anziché nasconderla suonando a velocità doppia, com’era di norma tra le band hardcore. Il risultato è tra i più alienanti degli anni Ottanta: sono ormai leggendari i loro brani lunghi, circolari, ripetitivi, che svanivano in code noise, ad aggiungersi al suono poco rassicurante sopra descritto. Anche dal punto di vista vocale sapevano spiazzare, con le cantilene alienanti di Shatter e Loose, ora rauchi come cani rabbiosi, ora atoni e apatici; tra tutti i cantanti della scena sono probabilmente loro i massimi cantori del degrado della metropoli.
Dopo le esperienze con altre band come Negative Trend e una manciata di singoli, i Flipper compongono il qui recensito “Album: Generic Flipper”, il loro apice e punto di non ritorno.
Niente più hardcore: gli assi cartesiani di quest’opera di confine sembrano essere i Velvet Underground più rumoristi, i Joy Division di “Unknown Pleasures” e dei primi singoli, ma soprattutto gli Stooges più perversi, quelli del lato B di “Funhouse”.
È proprio dal rumore di un feedback insidioso come un mal di testa che ha origine “Ever”, l’episodio che apre la tracklist, un rigurgito di chitarre stridenti cantato coi denti stretti e ritmato da un insospettabile handclapping; “Life is Cheap” invece è uno scarabocchio di chitarre poggiato su un giro di basso semplice e ripetitivo, con la voce “vera” di Loose doppiata da una voce effettata, a imitare la vocina di un maniaco omicida. Non c’è che dire, gli Stooges andrebbero senz’altro fieri di simili brutture.
Fiore all’occhiello del disco sono le sue due cantilene, in cui il quartetto dà il meglio di sé: la prima è “(I Saw You) Shine”, una specie di mantra noise-rock di otto minuti e mezzo, una litania così tormentata che nemmeno Ian Curtis sarebbe stato in grado di concepire; l’altra è “Way Of The World”, il loro inno di resa di fronte alle ingiustizie del mondo, l’accettazione della loro condizione di “inferiori”.
Altri picchi sono “Life” - che spiega con chiarezza il senso della vita secondo i Flipper: Dio? Un’illusione! si vive solo per vivere! - e i due pezzi più ritmicamente sostenuti, che rimandano vagamente all’ortodossia hardcore, ossia “Nothing” e “Living For The Depression”.
Pochi artisti hanno toccato simili vette di nichilismo, di disimpegno e di sprezzo per la vita, versi come “Brood in a corner and complain the rest/ but all we're really living for is to die" non possono che ispirare un misto di compassione e angoscia.
Gran finale a sorpresa con “Sex Bomb”, forse l’unico brano ben costruito dell'album, nonché il suo capolavoro assoluto, che potrebbe occupare un disco a sé. Siamo davanti a un baccanale sfrenato, con un basso post-punk vibrante a costruire le impalcature di una ritmica ossessiva ma al limite del ballabile, sibili di synth, un sassofono che ripete un fraseggio per i sette minuti di durata del brano e Shatter che urla come un pazzo o ripete regolarmente “She's A sex bomb, my baby, yeah!”, verso eloquente nella sua schiettezza: quando non si ha nulla ci si rifugia nel sesso, e l’assolo vorticoso del sax nel finale sembra essere l’orgasmo di questo rumorosissimo amplesso.
“Album: Generic Flipper” non è un disco devastante né shockante nel breve periodo, agisce piuttosto come un veleno che entra in circolo e sfigura la pelle permanentemente, lasciando segni indelebili del suo ascolto; lo stesso è stato per il suo peso storico, che si è fatto sentire solo nel lungo termine. Non solo le altre band outsider dell’hardcore (come i No Trend), ma anche alcuni gruppi americani di punta degli anni Novanta come Melvins, Nirvana e Unwound non sarebbero esistiti senza le canzoni lente e rumorosissime dei Flipper (pare che Cobain abbia deciso di tagliarsi i capelli e suonare alla loro maniera dopo averli ascoltati).
A venticinque anni dalla pubblicazione si può benissimo affermare di essere davanti non solo a un disco importantissimo e a una fucina idee per i gruppi a venire, ma a un vero e proprio documento dell’alienazione urbana di una gioventù senza futuro e disgustata dal proprio passato.
27/07/2008