Andrew Lloyd Webber, Tim Rice

Jesus Christ Superstar

1970 (MCA Records)
rock opera

Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all'infamia, uomo fino alla dannazione e all'abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia; avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.
(J. L. Borges, "Tre versioni di Giuda", "Finzioni", 1944)
Il soggetto era efficace. Duemila anni di efficacia, suppergiù. Anche il modo di proporlo era accattivante: una rilettura rock degli ultimi giorni di vita di Cristo, informata dalla cultura hippie, dai meccanismi del successo di massa, dalla nuova ondata spirituale che, tra fine Sessanta e inizio Settanta, andava profilandosi all'orizzonte. A essere poco convincente era invece il team di autori: un duo di giovincelli britannici, formato dal compositore ventiduenne Andrew Lloyd Webber e dal paroliere ventiseienne Tim Rice. Di lì a qualche tempo, sarebbero diventati star mondiali del musical, creatori di bestseller come "Cats" e "The Phantom Of The Opera" (Lloyd Webber), "Beauty And The Beast" e "The Lion King" (Rice), "Evita" (di nuovo in coppia). Alle soglie del 1970, però, potevano vantare nel proprio curriculum giusto una commedia musicale a tema biblico inscenata presso una scuola primaria di Londra (titolo: "Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat"; durata totale: un quarto d'ora).
Nonostante l'endorsement del decano di St. Paul's - il primo a proporre ai due di realizzare un musical incentrato sui Vangeli - il duo non trova impresari interessati a produrre la rock opera. Decide dunque di mettersi in proprio e, appoggiandosi alle finanze della Mca Records e a un cast di promettenti musicisti inglesi, incide un doppio ellepì. Una prova di studio, una "musical radio play" da destinare direttamente al mercato discografico nella speranza di suscitare qualche reazione e potere, un domani, portare sul palco la propria creatura.
Leggere oggi l'organico di quella prima versione di prova fa sgranare gli occhi: la voce di Gesù è Ian Gillan (Deep Purple), quella di Giuda Iscariota Murray Head (poi protagonista in "Chess" di Rice/Anderson/Ulvaeus, in cui canta la notissima "One Night In Bangkok"); chitarre, basso e batteria spettano alla backing band di Joe Cocker (The Grease Band), a cui si aggiungono all'occorrenza buona parte dei Nucleus, il futuro trombettista-simbolo del jazz europeo Kenny Wheeler, i tastieristi J. Peter Robinson (Quatermass) e Mike Vickers (Moog in "Abbey Road"), e molti altri.

Tra le decine di registrazioni su disco di "Jesus Christ Superstar" susseguitesi negli anni, è forse questa a immortalare al meglio il carattere dirompente ed enormemente ambizioso dell'opera che ha segnato un prima un dopo nella storia del musical. Preceduta già nel 1969 dal lancio come singolo della title track, non riscosse grande successo in madrepatria ma conquistò nel febbraio 1971 la prima posizione della Billboard Top 200 degli album più venduti negli Stati Uniti.
Nell'ottobre '71 la prima produzione ufficiale a Broadway mise un argine alle decine di rappresentazioni non autorizzate che erano spuntate un po' ovunque negli States. Nel 1972 iniziarono le riprese dell'adattamento cinematografico, filmato in Israele e diretto da Norman Jewison: uscito nell'anno successivo, riscosse 24 milioni di dollari al botteghino, per un attivo stimato del 600%. Di entrambe le messe in scena esistono testimonianze discografiche, purtroppo deludenti: dell'originale versione Broadway è stata pubblicata solo una compilation incompleta su singolo Lp; la soundtrack del film, invece, è notoriamente scadente in fatto di qualità audio. Ragioni in più per concentrarsi sulla prima, eclatante incisione, peraltro l'unica delle tre che l'esigentissimo Andrew Lloyd Webber non abbia più o meno immediatamente ripudiato con sdegno.

Ma Giuda Iscariota aveva Dio dalla sua parte?

Nato dal suggerimento di un sacerdote e da una domanda provocatoria contenuta in "With God On Our Side" di Bob Dylan, "Jesus Christ Superstar" festeggia quest'anno il cinquantesimo del suo debutto teatrale. Che cosa lo rende, ancora oggi, memorabile? Un elemento è dato senz'altro dai personaggi, che Rice rilegge in un'originale chiave laica e Lloyd Webber affianca con una brillante caratterizzazione musicale.
Colpisce la figura di Maria Maddalena, interpretata sia su album che nel film e poi sul palco dalla giovanissima Yvonne Elliman (nata a fine 1951): il musical la identifica da un lato con la peccatrice redenta, dall'altro con l'amante (non corrisposta?) di Gesù. Per accompagnare questa giovane devota, sempre capace di mantenere uno sguardo positivo malgrado le difficoltà e l'ostilità di altri discepoli, Andrew Lloyd Webber sceglie toni easy listening dalle venature folk. I suoi brani sono limitati ma incisivi: è in buona parte suo uno dei pezzi più iconici, "Everything's Alright", tra gli episodi in 5/4 più celebri della storia del pop; la sua signature song è invece "I Don't Know How To Love Him", uno dei passaggi melodicamente più luminosi dell'opera, anche grazie ai toni flautati dell'organo da camera.
Anche gli altri discepoli - che si tratti degli apostoli o della più vasta comunità di seguaci - svolgono un ruolo musicale importante. Una delle particolarità del musical, anzi, sta proprio nel gran numero di scene corali, che vedono gruppi e masse comportarsi come un unico personaggio. Questi passaggi, che in alcuni casi prendono la forma di brani indipendenti, sono in genere quelli in cui la musicalità si fa più apertamente eucaristica: "Hosanna", "Poor Jerusalem" e le sezioni acustiche di "The Last Supper" uniscono luminosità liturgica e slanci Motown. Di umore molto diverso gli interventi delle folle invasate, che dopo l'arresto di Cristo chiedono prima il giudizio del prefetto Ponzio Pilato e poi la crocifissione, su ritmi spezzati e impetuosi vortici orchestrali.

Agli antagonisti sono affidati stili del passato: il rhythm'n'blues e il modernismo stravinskiano per il sommo sacerdote Caifa e il governatore romano Ponzio Pilato; il vaudeville per il tetrarca della Giudea, Erode Antipa. Il primo, manipolatore e assetato di potere, è indicato come il mandante dell'uccisione di Gesù: è impersonato dal basso Victor Brox, bluesman bianco venerato anche da Jimi Hendrix e Tina Turner. Insieme ai farisei, presentati come suoi sgherri, detiene uno dei temi musicali che ricorrono con maggiore frequenza, quello di "This Jesus Must Die"/"Blood Money"/"Judas' Death". Nel film e in alcune versioni teatrali, Caifa e i farisei guadagnano un ulteriore numero: "Then We Are Decided".
L'unico brano di Erode, "King Herod's Song", lo ritrae caricaturalmente come un ricco edonista interessato solo a sbeffeggiare gli ipotetici miracoli di Cristo. Il pezzo è peraltro, in tutto il musical, l'unica occasione in cui di questi miracoli è fatta menzione - nonché l'unica canzone a essere stata pubblicata già prima della scrittura dell'album, con un diverso titolo ("Try It And See") e un'interprete sorprendente: Rita Pavone! Più sfaccettato il ruolo di Pilato, che sia psicologicamente che musicalmente si rivela uno dei personaggi più complessi: se nei Vangeli più tardi appare riluttante a emettere la sentenza di crocifissione, nella narrazione di Tim Rice il suo ruolo è quello di ostacolarla attivamente, accettandola infine solo per assecondare la presunta volontà autodistruttrice di Gesù. Quasi uno strumento in un disegno più grande, critico verso la parte attribuitagli. L'interprete prescelto è Barry Dennen, che, come Maria Maddalena/Yvonne Elliman, resterà anche a Broadway e nel film. Il suo registro è quello di baritenore, capace di muoversi sia nel range dei personaggi principali che sui toni scuri delle note basse: una conferma del carattere anfibio del personaggio, che si fa notare anche per i timbri nasali sfoderati all'occorrenza e l'esasperarata non-melodicità dei suoi attacchi più taglienti (arrivando alla rottura della voce nel finale di "Trial Before Pilate").

Gesù è ovviamente al centro delle vicende, ma la sua caratterizzazione emerge più dall'incontro delle azioni altrui che dalle sue effettive parti vocali. La scelta è quella di mettere in luce come il personaggio abbia sembianze diverse ad occhi diversi: per Caifa e i farisei è una minaccia, per Erode un buffone, per alcuni discepoli il figlio spirituale di Dio e per altri il possibile leader di un'insurrezione, per le folle adoranti un Vip a cui affidare la propria salvezza. Per Ponzio Pilato è un pazzo che forse si crede legittimo re dei giudei, per Maria Maddalena l'orizzonte, vicinissimo ma irraggiungibile, di un platonico amore. Per Giuda, è al tempo stesso una guida, un traditore, un incoerente, il messaggero divino, qualcuno per cui morire, l'uomo sbagliato al momento giusto, l'uomo giusto al momento sbagliato. Recita il ritornello della hit "Superstar": "Jesus Christ superstar, who are you? What have you sacrificed?", "Jesus Christ, Jesus Christ, do you think you are what they say you are?". Il musical sembra dare una risposta inattesa alle domande che da sempre attanagliano teologi e fedeli: il personaggio Gesù è tutti i suoi volti insieme, e ciò che l'uomo Gesù pensi di sé stesso è molto meno essenziale per il suo mito di ciò che gli altri vedono in lui. Una vera superstar.

Eppure, le occasioni che Lloyd Webber e Rice ritagliano per la voce diretta di Gesù sono tutte dedicate all'esplorazione della sua psicologia. Il conflitto fra la sua anima missionaria e il travaglio interiore emerge, oltre che nei testi, anche nelle scelte musicali: i suoi scambi coi discepoli sono melodicamente cristallini, ma il suo flusso di coscienza prende sistematicamente derive impervie. Il suo unico numero solistico, "Gethsemane (I Only Want To Say)", abbina all'epica drammaticità della cadenza andalusa tipica del flamenco i due massimi acuti del musical ("Why should I die?" e "Alright, I'll die", entrambe sol della quinta ottava del piano). Le due note non sono previste nella partitura di Lloyd Webber, ma furono improvvisate da Ian Gillan e incise nel disco; da allora, sono lo standard sulla quale si misura l'adeguatezza di un cantante al ruolo. Molti interpreti, dotati di ottima impostazione ed estensione strepitosa, le affrontano ricorrendo al falsetto o al belting; Gillan, di contro, le approccia in scream, e ottiene una potenza espressiva che lascia di sasso. Lo strillo sovracuto, raggelante ancor oggi ma per l'epoca semplicemente inaudito, trasmette tutta l'unicità del dilaniamento del personaggio: da un lato, esprime uno strazio visceralmente umano, dall'altro, sfocia in sonorità che umane non sembrano essere. Un mix disperato di vicinanza e lontananza dall'esperienza comune, che condensa in forma laica l'enigma della duplice natura, qui visto come contrasto fra necessità della propria morte e incapacità di comprenderne le ragioni.
Forse meno trascinanti, ma altrettanto estremi sono i lidi musicali lambiti da "The Crucifixion", un episodio di avant-jazz zeppo di dissonanze e cori spettrali, che fa da sfondo a quella che è sostanzialmente l'unica vera sezione parlata dell'intero arco narrativo. Che proprio con la crocifissione si conclude: della resurrezione non c'è traccia, fatto che all'epoca suscitò le ire di alcuni fedeli, assieme all'assenza di pronunciamenti sull'eventuale natura divina di Cristo. Proprio in questo, però, sta l'efficacia della costruzione di Lloyd Webber e Rice: mostrando Gesù unicamente come un uomo (senza però negare apertamente altre interpretazioni), riesce ad avvicinarne e attualizzarne il simbolo anche a un pubblico non credente; mantenendosi in un mirabile equilibrio fra rispetto e provocazione, tuttavia, la trasposizione sarà apprezzata anche da un grandissimo numero di cristiani praticanti.

Ma il personaggio più amato dai fan - e, c'è da giurarlo, anche dagli autori - è senz'altro Giuda. Sua è la maggior quantità di numeri; suo il primo pezzo cantato del musical; sua la personalità più scandagliata dai testi di Rice. A Giuda, inoltre, Llloyd Webber dedica la scelta stilistica più coraggiosa. Fin dalle primissime note di chitarra elettrica in "Heaven On Their Minds", Giuda è il rock.
Il tema che identifica Giuda, e automaticamente il musical intero, è un ostinato costruito su tre note: re, do, mi bemolle. Su questo, la voce attacca un'introduzione in re dorico, il modo ottenuto dalla scala di do maggiore impiegando come fondamentale il re: è un'ambientazione ibrida, che ha la gravità del re minore ma anche elementi di luminosità in comune coi modi maggiori - la controparte perfetta dell'ambivalenza del personaggio. Muovendosi più decisamente verso il re minore con la strofa, Giuda avanza dubbi sull'efficacia della predicazione di Gesù e sulla sua prematura glorificazione; con un repentino cambio di tempo in 7/8, sul bridge i dubbi mutano in aperta polemica:
Nazareth your famous son should have stayed a great unknown
Like his father carving wood, he'd have made good
Il ritorno alla strofa non fa che amplificare il senso di timore e disillusione da parte di un discepolo che pare tenere alla missione di Cristo ancor più di Cristo stesso:
I am frightened by the crowd
For we are getting much too loud [...]
All your followers are blind
Too much heaven on their minds
It was beautiful but now it's sour
Yes it's all gone sour...
Giuda torna nel brano successivo ("What's The Buzz/Strange Thing Mystifying"), criticando il rapporto compromettente fra Gesù e Maria Maddalena e sfoderando due altri trick che ne evidenziano l'ambiguità: l'ombroso passaggio minore-maggiore sul quarto grado della scala e il ricorso, molto rock, all'accordo di settima bemolle "preso in prestito" da un'altra tonalità:

SOL (I)                           DO (IV)     DOm (iv)
It seems to me a strange thing mystifying
SOL (I)               DO (IV)                              SOL (I)
That a man like you can waste his time on women of her kind! […]
FA (VIIb)    DO (IV)              SOL (I)
It's not that I object to her profession
FA (VIIb)              DO (IV)          FA (VIIb)                 SOL (I)
But she doesn't fit in well with what you teach and say

In “Everything’s Alright”, nominalmente un numero di Maria Maddalena, Giuda ha la sua parte, marcata dallo spostamento da maggiore a minore della tonalità:

Woman your fine ointment, brand new and expensive
Could have been saved for the poor
Why has it been wasted, we could have raised maybe
Three hundred silver pieces or more
People who are hungry, people who are starving
Matter more than your feet and hair

E ancora: riecco Giuda in “Damned For All Time/Blood Money”, questa volta in accoppiata con Caifa e i Farisei, poi ancora in “The Last Supper”, (ovviamente) in “Judas' Death” e… In “Superstar”. Già: il brano-simbolo del musical è cantato da Giuda, che riappare in scena dopo la sua morte: non viene mostrata la resurrezione di Cristo, ma in compenso a “tornare in vita”, anche se solo come spirito, è proprio la sua nemesi!
Il pezzo è composto nel “più rock di tutti i modi”, il misolidio (quello, per dire, di “Sympathy For The Devil”), che per l’occasione è reso ancora più rock dall’accordo equivalente alla settima bemolle di “Strange Thing Mystifying”:

MI (I)                        SOL7 (IIIb)
Everytime I look at you I don't understand
LA7 (IV)                                  MI7 (I)
Why you let the things you did get so out of hand

L’associazione stretta tra lo stile musicale e il personaggio è resa palese dal ritornello, affidato al coro gospel Trinidad Singers: sui suoi versi, l’accordo incriminato sparisce e viene sostituito da uno che non richiede “prestiti” da altre tonalità:

MI (I)             LA (IV)
Jesus Christ, Jesus Christ
RE (VII)             LA (IV)             MI (I)
Who are you?  What have you sacrificed?

Non sarebbe corretto affermare che Giuda rubi la scena a Gesù. I personaggi sono proposti nel musical come duali: ciascuno è necessario all’altro e per l’altro muore; entrambi si sacrificano per Dio e il disegno che gli attribuiscono. Ma a Gesù va la gloria, a Giuda la dannazione.
Che il pubblico empatizzi più con Giuda è cosa naturale. Se Gesù è presentato, anche musicalmente, come distante dall’esperienza, a Giuda sono attribuite le sonorità più attuali e le contraddizioni più coinvolgenti. La partitura, però, fa tutto il possibile per suggerire che le figure vadano sovrapposte, non viste in esclusione. Gesù e Giuda sono gli unici, nel cast principale, a figurare nel ruolo di tenori. In pezzi come “Everything Is Alright” e “The Last Supper” i due condividono tonalità e melodie, e il tema chitarristico di Giuda, che ricompare al momento della sua impiccagione, torna anche durante la flagellazione di Gesù. Come Gesù, anche Giuda fa un uso molto espressivo della voce, arrivando spesso alla rottura (l’unico altro personaggio a ricorrervi è Ponzio Pilato) e concedendosi, nella ripresa di “I Don’t Know How To Love Him” in “Judas' Death”, perfino una stecca. Alla duplicità umano/divino di Gesù, Rice e Lloyd Webber scelgono di sostituirne un’altra, quella fra il Messia e il suo traditore, visti come due volti dello stesso enigma.

Il musical dei record

Sorprendente anche nel 2021, “Jesus Christ Superstar” per il 1970 era una rivoluzione. Non era né il primo musical rock (il più celebre dei predecessori, “Hair”, è del 1967), né il primo rock musical a tema religioso (“Salvation” di Peter Link aveva debuttato off-Broadway l’anno prima). In fatto di arrivo nei teatri, fu poi battuto di qualche mese da “Godspell” di Stephen Schwartz, un’altra produzione a tema evangelico che proponeva una narrazione “hippie” delle vicende di Cristo, omettendo peraltro la resurrezione proprio come “Jesus Christ Superstar”. Ma i possibili paragoni si fermano alla superficie.
“Jesus Christ Superstar” è unico per la prominenza della componente elettrica, per l’uso espressionista della voce fatto da Gesù, Giuda e Pilato, per la centralità degli elementi corali, per l’abbondanza di tempi composti, per l’utilizzo pioneristico del sintetizzatore. Quest’ultimo (per la precisione un Moog modular) è il primissimo strumento a comparire nell’"Overture" e da subito si ritaglia un ruolo disturbante e minaccioso; nei brani in cui è presente, non si limita ad aggiungere colore alla tavolozza tastieristica già comprendente pianoforti acustici ed elettrici (molto probabilmente Hohner Pianet o Electra Piano — ma i credits non lo chiariscono) ma spinge sulle sue possibilità più avanguardistiche. Nei musical a venire, il sintetizzatore diventerà una presenza fissa nella “buca” dell’orchestra, con un ruolo di orchestral enhancement che permetterà di ridurre i costi delle produzioni sostituendo ad alcuni strumenti acustici i relativi sample: molto lontana da quell’orizzonte tecnologico, l’ambizione di Lloyd Webber è qui quella di aggiungere alla gamma elettrica e a quella acustica un mondo nuovo e ancora inesplorato di possibilità espressive. In “Trial Before Pilate” è evidente il ricorso al detuning degli oscillatori: i tre generatori audio presenti nel synth sono leggermente stonati l’uno rispetto all’altro, per rendere il suono più alienante e materico. In “The Crucifixion” il synth è impiegato per produrre rumori e gorgoglii dal carattere quasi alieno.

Riguardo ai tempi composti, i già citati 5/4 e 7/8 di “Everything’s Alright” e “Heaven On Their Minds” non sono che un esempio. Per il 1970, “Jesus Christ Superstar” presenta una quantità straordinaria di complessità metriche, che nell’ambito del musical rimarranno un’eccezione, mentre in campo rock si faranno via via più presenti proprio negli anni immediatamente successivi, con lo sviluppo del progressive rock. Spiegherà Lloyd Webber nella sua autobiografia (“Unmasked”, 2018): "I tempi inusuali e irregolari sono un elemento vitale della costruzione di 'Jesus Christ Superstar'. Danno un’energia propulsiva alla musica, e dunque anche alle parole e all’efficacia narrativa'.
“The Temple” è in 7/4; “Strange Thing Mystifying”, “Getshemane”, “The Arrest” e “Trial Before Pilate” ricorrono nei rispettivi climax a passaggi in 5/4 per amplificarne l’aura disorientante e sinistra. In altri episodi, pur non uscendo formalmente dal 4/4, i metri sono spezzati, frammentati in più parti con accenti diversi, giustapposte fra loro: 5+3 in “The Arrest” (“Now we have him, now we’ve got him!”). 3+3+2 in “Getshemane” (“I have to know/ I have to know/ My Lord!”) e in “Strange Thing Mystifying”. (È lasciato al lettore intraprendente l’esercizio di determinare l'esatta scansione della prima arringa di Pilato in “Trial Before Pilate”).

“Jesus Christ Superstar” è anche l’apripista di una nuova forma di teatro musicale, responsabile di successi tali da essere quasi identificata col genere: il sung-through musical. Anticipata nel 1964 dal film di Jacques Demy “Les Parapluies de Cherbourg” e nel 1968/1969 da “Joseph” degli stessi Lloyd Webber e Rice, l’impostazione riprende dall’opera buffa italiana il principio che tutti i testi debbano essere cantati, o attraverso canzoni vere e proprie o ricorrendo a recitativi — sezioni in cui il cantato sfuma nel parlato, con una dizione sostanzialmente sillabica che però distingue note differenti. Gli intermezzi parlati, il cosiddetto libretto, sono di fatto soppressi.
La mossa nasce in parte anche dalle esigenze contingenti: puntando direttamente al formato album, una formula interamente musicale sembrava più promettente. Otto anni di rappresentazioni ininterrotte al Palace Theatre di Londra (il record fino a "Cats" per un musical del West End) sembrano però confermare l'efficacia della soluzione anche sul palco. Molti dei trionfi di Andrew Lloyd Webber dei decenni successivi appartengono alla medesima categoria sung-through: “Evita” (1976), “Cats” (1981), “The Phantom Of The Opera” (1986).

Altro tratto distintivo dello stile del compositore è l’impiego quasi wagneriano di temi musicali ricorrenti: dall’"Overture" fino alla conclusione, leit-motiv melodici e ritmici associati alla narrazione si inseguono creando gli episodi musicali. Nonostante la mole impressionante di idee iconiche, il musical contiene relativamente pochi cavalli di battaglia proponibili come canzoni a sé stanti: la maggior parte dei numeri è costituita da assemblaggi di questi temi, che si anticipano, scambiano di personaggio e ripropongono, più limpidi o più oscuri, a seconda della circostanza narrativa.

Dal Primo Secolo alla popular culture

Il successo di “Jesus Christ Superstar” fu enorme e lo è tutt’ora: più di quaranta produzioni teatrali, due adattamenti cinematografici (oltre a quello del 1973, ce ne fu uno nel 2000, decisamente scadente), una versione televisiva (2018, con John Legend nel ruolo di Gesù, Sara Bareilles nella parte di Maria Maddalena, Alice Cooper come Erode), decine e decine di incisioni in formato album. La sua presenza nella cultura di massa è importante almeno quanto quella della cultura di massa all’interno del musical. Già di per sé una “trasposizione rock” della storia dei Vangeli, da portare nei teatri, è ovviamente un’idea che poteva nascere solo nella società della musica registrata ed elettrificata, della rapida circolazione delle informazioni, dell’intrattenimento e della gioventù. Ma il progetto di Lloyd Webber e Rice incorpora l’attualità sociale e i suoi meccanismi in maniera assai più marcata di quanto dettato dalla stretta contingenza, e incide soprattutto per la sua capacità di leggere in maniera critica, oltre che le vicende di duemila anni fa, anche quelle contemporanee.

La stessa volontà di rovesciare l’usuale narrazione sui ruoli di Cristo, Giuda e degli altri personaggi è il frutto di un contesto culturale, quello dei secondi anni Sessanta, che ha sdoganato la ridiscussione dei pilastri della fede cristiana. Se è improbabile una diretta influenza del Concilio Vaticano Secondo (l'opera dopotutto nasce in contesto anglicano), certamente sullo sfondo del lavoro degli autori vi è il dibattito, ormai non più solo accademico, sui vangeli apocrifi e il contesto storico-culturale della predicazione di Cristo. La scoperta in Egitto, nel 1945 a Nag Hammadi, di un vasto corpus di scritti evangelici di carattere gnostico fu seguita nel 1947 dal rinvenimento, nelle grotte di Qumran nella Palestina Mandataria, degli oggi celebri “Rotoli del Mar Morto”, una collezione di scritti religiosi che si presume risalgano alla setta degli Esseni, quasi contemporanea del primo Cristianesimo. Questo riaccese il confronto sulle origini del Cristianesimo: sulla fine degli anni Sessanta, la consapevolezza dei limiti della ricostruzione canonica era pienamente entrata nel clima culturale e musicale (lo testimonia, in Italia, anche il lavoro di De André sugli apocrifi, che sfociò proprio nel 1970 nell’album “La buona novella”).

Lungo le quasi due ore di durata del musical, gli elementi ironici e volontariamente anacronistici si succedono in continuazione nei testi di Rice. È emblematico il dialogo di Caifa coi suoi sottoposti in “This Jesus Must Die”: “One thing I'll say for him: Jesus is cool”, “But how can we stop him? His glamour increases/ By leaps every minute: he's top of the poll”. Qui, come altrove, il focus è soprattutto sulla visione di Gesù come superstar ante litteram (oggi diremmo forse influencer?), al tempo stesso vicina e lontana dai suoi follower. Il tema torna spesso nelle scene pubbliche: in “Hosanna” Jesus Christ diventa “JC”, in “Simon Zealotes/Poor Jerusalem” la smania di confidenza si fa fisica (“Jesus I am with you, touch me touch me Jesus!/ Jesus I am on your side, kiss me kiss me Jesus!”).
I passaggi più pungenti sono però concentrati in “Superstar”, dove Giuda canta: “Why'd you choose such a backward time and such a strange land?/ If you'd come today you would have reached a whole nation/ Israel in 4 B.C. had no mass communication”. Prosegue poi istillando dubbi che trascendono la specifica fede cristiana: “Could Mohammed move a mountain or was that just PR?”, “Did you know your messy death would be a record-breaker?”.
Lo spirito provocatorio e postmoderno dell’opera è ulteriormente enfatizzato nel film del 1973, che mostra i personaggi come figuranti giunti in mezzo al deserto a bordo di un furgoncino e ricorre in più passaggi a fermo immagine ed elementi extradiegetici (particolarmente efficace il torrente di dipinti della crocifissione che accompagnano la sezione strumentale di “Crucifixion”).

A mezzo secolo dall’uscita, “Jesus Christ Superstar” non ha ancora finito di commentare la società attraverso i suoi continui riadattamenti: se il film del ’73 si fece notare per gli accenti antimilitaristi e la scelta coraggiosa di un Giuda afroamericano (l’indimenticabile Carl Anderson, che sarebbe tornato in numerose produzioni), negli anni si sarebbero susseguite versioni antiutopistico/metropolitane (il discusso film del 2000), heavy metal (Cile, 2004), dirette e interpretate da carcerati (Perù, 2014), con un protagonista scelto attraverso talent show (Regno Unito, 2012), in stile punk o impersonate da un cast interamente nero (Stati Uniti, 2017). Giusto di quest’anno è la rilettura jazz di Stefano Bollani, tributo sentito dell’eclettico pianista a un’opera che lo ha influenzato profondamente in gioventù. E che, probabilmente, continuerà grazie alle continue reinvenzioni a raccontare ancora per molto l’eterna attualità di una storia vecchia due millenni. Altri cinquanta di questi anni, “Jesus Christ Superstar”!

 

25/12/2021

Tracklist

Disc 1:
  1. Overture
  2. Heaven On Their Minds
  3. What's The Buzz/Strange Thing Mystifying
  4. Averything's Alright
  5. This Jesus Must Die
  6. Hosanna
  7. Simon Zealotes/Poor Jerusalem
  8. Pilate's Dream
  9. The Temple
  10. Everything's Alright (Reprise)
  11. I Don't Know How To Love Him
  12. Damned For All Time/Blood Money

Disc 2:
  1. The Last Supper
  2. Gethsemane (I Only Want To Say)
  3. The Arrest
  4. Peter's Denial
  5. Pilate And Christ
  6. King Herod's Song (Try It And See)
  7. Judas' Death
  8. Trial Before Pilate (Including The 39 Lashes)
  9. Superstar
  10. Crucifixion
  11. John Nineteen: Forty One

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