Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all'infamia, uomo fino alla dannazione e all'abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia; avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.Il soggetto era efficace. Duemila anni di efficacia, suppergiù. Anche il modo di proporlo era accattivante: una rilettura rock degli ultimi giorni di vita di Cristo, informata dalla cultura hippie, dai meccanismi del successo di massa, dalla nuova ondata spirituale che, tra fine Sessanta e inizio Settanta, andava profilandosi all'orizzonte. A essere poco convincente era invece il team di autori: un duo di giovincelli britannici, formato dal compositore ventiduenne Andrew Lloyd Webber e dal paroliere ventiseienne Tim Rice. Di lì a qualche tempo, sarebbero diventati star mondiali del musical, creatori di bestseller come "Cats" e "The Phantom Of The Opera" (Lloyd Webber), "Beauty And The Beast" e "The Lion King" (Rice), "Evita" (di nuovo in coppia). Alle soglie del 1970, però, potevano vantare nel proprio curriculum giusto una commedia musicale a tema biblico inscenata presso una scuola primaria di Londra (titolo: "Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat"; durata totale: un quarto d'ora).
(J. L. Borges, "Tre versioni di Giuda", "Finzioni", 1944)
Nazareth your famous son should have stayed a great unknownIl ritorno alla strofa non fa che amplificare il senso di timore e disillusione da parte di un discepolo che pare tenere alla missione di Cristo ancor più di Cristo stesso:
Like his father carving wood, he'd have made good
I am frightened by the crowdGiuda torna nel brano successivo ("What's The Buzz/Strange Thing Mystifying"), criticando il rapporto compromettente fra Gesù e Maria Maddalena e sfoderando due altri trick che ne evidenziano l'ambiguità: l'ombroso passaggio minore-maggiore sul quarto grado della scala e il ricorso, molto rock, all'accordo di settima bemolle "preso in prestito" da un'altra tonalità:
For we are getting much too loud [...]
All your followers are blind
Too much heaven on their minds
It was beautiful but now it's sour
Yes it's all gone sour...
SOL (I) DO (IV) DOm (iv)
It seems to me a strange thing mystifying
SOL (I) DO (IV) SOL (I)
That a man like you can waste his time on women of her kind! […]
FA (VIIb) DO (IV) SOL (I)
It's not that I object to her profession
FA (VIIb) DO (IV) FA (VIIb) SOL (I)
But she doesn't fit in well with what you teach and say
In “Everything’s Alright”, nominalmente un numero di Maria Maddalena, Giuda ha la sua parte, marcata dallo spostamento da maggiore a minore della tonalità:
Woman your fine ointment, brand new and expensive
Could have been saved for the poor
Why has it been wasted, we could have raised maybe
Three hundred silver pieces or more
People who are hungry, people who are starving
Matter more than your feet and hair
E ancora: riecco Giuda in “Damned For All Time/Blood Money”, questa volta in accoppiata con Caifa e i Farisei, poi ancora in “The Last Supper”, (ovviamente) in “Judas' Death” e… In “Superstar”. Già: il brano-simbolo del musical è cantato da Giuda, che riappare in scena dopo la sua morte: non viene mostrata la resurrezione di Cristo, ma in compenso a “tornare in vita”, anche se solo come spirito, è proprio la sua nemesi!
Il pezzo è composto nel “più rock di tutti i modi”, il misolidio (quello, per dire, di “Sympathy For The Devil”), che per l’occasione è reso ancora più rock dall’accordo equivalente alla settima bemolle di “Strange Thing Mystifying”:
MI (I) SOL7 (IIIb)
Everytime I look at you I don't understand
LA7 (IV) MI7 (I)
Why you let the things you did get so out of hand
L’associazione stretta tra lo stile musicale e il personaggio è resa palese dal ritornello, affidato al coro gospel Trinidad Singers: sui suoi versi, l’accordo incriminato sparisce e viene sostituito da uno che non richiede “prestiti” da altre tonalità:
MI (I) LA (IV)
Jesus Christ, Jesus Christ
RE (VII) LA (IV) MI (I)
Who are you? What have you sacrificed?
Non sarebbe corretto affermare che Giuda rubi la scena a Gesù. I personaggi sono proposti nel musical come duali: ciascuno è necessario all’altro e per l’altro muore; entrambi si sacrificano per Dio e il disegno che gli attribuiscono. Ma a Gesù va la gloria, a Giuda la dannazione.
Che il pubblico empatizzi più con Giuda è cosa naturale. Se Gesù è presentato, anche musicalmente, come distante dall’esperienza, a Giuda sono attribuite le sonorità più attuali e le contraddizioni più coinvolgenti. La partitura, però, fa tutto il possibile per suggerire che le figure vadano sovrapposte, non viste in esclusione. Gesù e Giuda sono gli unici, nel cast principale, a figurare nel ruolo di tenori. In pezzi come “Everything Is Alright” e “The Last Supper” i due condividono tonalità e melodie, e il tema chitarristico di Giuda, che ricompare al momento della sua impiccagione, torna anche durante la flagellazione di Gesù. Come Gesù, anche Giuda fa un uso molto espressivo della voce, arrivando spesso alla rottura (l’unico altro personaggio a ricorrervi è Ponzio Pilato) e concedendosi, nella ripresa di “I Don’t Know How To Love Him” in “Judas' Death”, perfino una stecca. Alla duplicità umano/divino di Gesù, Rice e Lloyd Webber scelgono di sostituirne un’altra, quella fra il Messia e il suo traditore, visti come due volti dello stesso enigma.
Il musical dei record
Sorprendente anche nel 2021, “Jesus Christ Superstar” per il 1970 era una rivoluzione. Non era né il primo musical rock (il più celebre dei predecessori, “Hair”, è del 1967), né il primo rock musical a tema religioso (“Salvation” di Peter Link aveva debuttato off-Broadway l’anno prima). In fatto di arrivo nei teatri, fu poi battuto di qualche mese da “Godspell” di Stephen Schwartz, un’altra produzione a tema evangelico che proponeva una narrazione “hippie” delle vicende di Cristo, omettendo peraltro la resurrezione proprio come “Jesus Christ Superstar”. Ma i possibili paragoni si fermano alla superficie.
“Jesus Christ Superstar” è unico per la prominenza della componente elettrica, per l’uso espressionista della voce fatto da Gesù, Giuda e Pilato, per la centralità degli elementi corali, per l’abbondanza di tempi composti, per l’utilizzo pioneristico del sintetizzatore. Quest’ultimo (per la precisione un Moog modular) è il primissimo strumento a comparire nell’"Overture" e da subito si ritaglia un ruolo disturbante e minaccioso; nei brani in cui è presente, non si limita ad aggiungere colore alla tavolozza tastieristica già comprendente pianoforti acustici ed elettrici (molto probabilmente Hohner Pianet o Electra Piano — ma i credits non lo chiariscono) ma spinge sulle sue possibilità più avanguardistiche. Nei musical a venire, il sintetizzatore diventerà una presenza fissa nella “buca” dell’orchestra, con un ruolo di orchestral enhancement che permetterà di ridurre i costi delle produzioni sostituendo ad alcuni strumenti acustici i relativi sample: molto lontana da quell’orizzonte tecnologico, l’ambizione di Lloyd Webber è qui quella di aggiungere alla gamma elettrica e a quella acustica un mondo nuovo e ancora inesplorato di possibilità espressive. In “Trial Before Pilate” è evidente il ricorso al detuning degli oscillatori: i tre generatori audio presenti nel synth sono leggermente stonati l’uno rispetto all’altro, per rendere il suono più alienante e materico. In “The Crucifixion” il synth è impiegato per produrre rumori e gorgoglii dal carattere quasi alieno.
Riguardo ai tempi composti, i già citati 5/4 e 7/8 di “Everything’s Alright” e “Heaven On Their Minds” non sono che un esempio. Per il 1970, “Jesus Christ Superstar” presenta una quantità straordinaria di complessità metriche, che nell’ambito del musical rimarranno un’eccezione, mentre in campo rock si faranno via via più presenti proprio negli anni immediatamente successivi, con lo sviluppo del progressive rock. Spiegherà Lloyd Webber nella sua autobiografia (“Unmasked”, 2018): "I tempi inusuali e irregolari sono un elemento vitale della costruzione di 'Jesus Christ Superstar'. Danno un’energia propulsiva alla musica, e dunque anche alle parole e all’efficacia narrativa'.
“The Temple” è in 7/4; “Strange Thing Mystifying”, “Getshemane”, “The Arrest” e “Trial Before Pilate” ricorrono nei rispettivi climax a passaggi in 5/4 per amplificarne l’aura disorientante e sinistra. In altri episodi, pur non uscendo formalmente dal 4/4, i metri sono spezzati, frammentati in più parti con accenti diversi, giustapposte fra loro: 5+3 in “The Arrest” (“Now we have him, now we’ve got him!”). 3+3+2 in “Getshemane” (“I have to know/ I have to know/ My Lord!”) e in “Strange Thing Mystifying”. (È lasciato al lettore intraprendente l’esercizio di determinare l'esatta scansione della prima arringa di Pilato in “Trial Before Pilate”).
“Jesus Christ Superstar” è anche l’apripista di una nuova forma di teatro musicale, responsabile di successi tali da essere quasi identificata col genere: il sung-through musical. Anticipata nel 1964 dal film di Jacques Demy “Les Parapluies de Cherbourg” e nel 1968/1969 da “Joseph” degli stessi Lloyd Webber e Rice, l’impostazione riprende dall’opera buffa italiana il principio che tutti i testi debbano essere cantati, o attraverso canzoni vere e proprie o ricorrendo a recitativi — sezioni in cui il cantato sfuma nel parlato, con una dizione sostanzialmente sillabica che però distingue note differenti. Gli intermezzi parlati, il cosiddetto libretto, sono di fatto soppressi.
La mossa nasce in parte anche dalle esigenze contingenti: puntando direttamente al formato album, una formula interamente musicale sembrava più promettente. Otto anni di rappresentazioni ininterrotte al Palace Theatre di Londra (il record fino a "Cats" per un musical del West End) sembrano però confermare l'efficacia della soluzione anche sul palco. Molti dei trionfi di Andrew Lloyd Webber dei decenni successivi appartengono alla medesima categoria sung-through: “Evita” (1976), “Cats” (1981), “The Phantom Of The Opera” (1986).
Altro tratto distintivo dello stile del compositore è l’impiego quasi wagneriano di temi musicali ricorrenti: dall’"Overture" fino alla conclusione, leit-motiv melodici e ritmici associati alla narrazione si inseguono creando gli episodi musicali. Nonostante la mole impressionante di idee iconiche, il musical contiene relativamente pochi cavalli di battaglia proponibili come canzoni a sé stanti: la maggior parte dei numeri è costituita da assemblaggi di questi temi, che si anticipano, scambiano di personaggio e ripropongono, più limpidi o più oscuri, a seconda della circostanza narrativa.
Dal Primo Secolo alla popular culture
Il successo di “Jesus Christ Superstar” fu enorme e lo è tutt’ora: più di quaranta produzioni teatrali, due adattamenti cinematografici (oltre a quello del 1973, ce ne fu uno nel 2000, decisamente scadente), una versione televisiva (2018, con John Legend nel ruolo di Gesù, Sara Bareilles nella parte di Maria Maddalena, Alice Cooper come Erode), decine e decine di incisioni in formato album. La sua presenza nella cultura di massa è importante almeno quanto quella della cultura di massa all’interno del musical. Già di per sé una “trasposizione rock” della storia dei Vangeli, da portare nei teatri, è ovviamente un’idea che poteva nascere solo nella società della musica registrata ed elettrificata, della rapida circolazione delle informazioni, dell’intrattenimento e della gioventù. Ma il progetto di Lloyd Webber e Rice incorpora l’attualità sociale e i suoi meccanismi in maniera assai più marcata di quanto dettato dalla stretta contingenza, e incide soprattutto per la sua capacità di leggere in maniera critica, oltre che le vicende di duemila anni fa, anche quelle contemporanee.
La stessa volontà di rovesciare l’usuale narrazione sui ruoli di Cristo, Giuda e degli altri personaggi è il frutto di un contesto culturale, quello dei secondi anni Sessanta, che ha sdoganato la ridiscussione dei pilastri della fede cristiana. Se è improbabile una diretta influenza del Concilio Vaticano Secondo (l'opera dopotutto nasce in contesto anglicano), certamente sullo sfondo del lavoro degli autori vi è il dibattito, ormai non più solo accademico, sui vangeli apocrifi e il contesto storico-culturale della predicazione di Cristo. La scoperta in Egitto, nel 1945 a Nag Hammadi, di un vasto corpus di scritti evangelici di carattere gnostico fu seguita nel 1947 dal rinvenimento, nelle grotte di Qumran nella Palestina Mandataria, degli oggi celebri “Rotoli del Mar Morto”, una collezione di scritti religiosi che si presume risalgano alla setta degli Esseni, quasi contemporanea del primo Cristianesimo. Questo riaccese il confronto sulle origini del Cristianesimo: sulla fine degli anni Sessanta, la consapevolezza dei limiti della ricostruzione canonica era pienamente entrata nel clima culturale e musicale (lo testimonia, in Italia, anche il lavoro di De André sugli apocrifi, che sfociò proprio nel 1970 nell’album “La buona novella”).
Lungo le quasi due ore di durata del musical, gli elementi ironici e volontariamente anacronistici si succedono in continuazione nei testi di Rice. È emblematico il dialogo di Caifa coi suoi sottoposti in “This Jesus Must Die”: “One thing I'll say for him: Jesus is cool”, “But how can we stop him? His glamour increases/ By leaps every minute: he's top of the poll”. Qui, come altrove, il focus è soprattutto sulla visione di Gesù come superstar ante litteram (oggi diremmo forse influencer?), al tempo stesso vicina e lontana dai suoi follower. Il tema torna spesso nelle scene pubbliche: in “Hosanna” Jesus Christ diventa “JC”, in “Simon Zealotes/Poor Jerusalem” la smania di confidenza si fa fisica (“Jesus I am with you, touch me touch me Jesus!/ Jesus I am on your side, kiss me kiss me Jesus!”).
I passaggi più pungenti sono però concentrati in “Superstar”, dove Giuda canta: “Why'd you choose such a backward time and such a strange land?/ If you'd come today you would have reached a whole nation/ Israel in 4 B.C. had no mass communication”. Prosegue poi istillando dubbi che trascendono la specifica fede cristiana: “Could Mohammed move a mountain or was that just PR?”, “Did you know your messy death would be a record-breaker?”.
Lo spirito provocatorio e postmoderno dell’opera è ulteriormente enfatizzato nel film del 1973, che mostra i personaggi come figuranti giunti in mezzo al deserto a bordo di un furgoncino e ricorre in più passaggi a fermo immagine ed elementi extradiegetici (particolarmente efficace il torrente di dipinti della crocifissione che accompagnano la sezione strumentale di “Crucifixion”).
A mezzo secolo dall’uscita, “Jesus Christ Superstar” non ha ancora finito di commentare la società attraverso i suoi continui riadattamenti: se il film del ’73 si fece notare per gli accenti antimilitaristi e la scelta coraggiosa di un Giuda afroamericano (l’indimenticabile Carl Anderson, che sarebbe tornato in numerose produzioni), negli anni si sarebbero susseguite versioni antiutopistico/metropolitane (il discusso film del 2000), heavy metal (Cile, 2004), dirette e interpretate da carcerati (Perù, 2014), con un protagonista scelto attraverso talent show (Regno Unito, 2012), in stile punk o impersonate da un cast interamente nero (Stati Uniti, 2017). Giusto di quest’anno è la rilettura jazz di Stefano Bollani, tributo sentito dell’eclettico pianista a un’opera che lo ha influenzato profondamente in gioventù. E che, probabilmente, continuerà grazie alle continue reinvenzioni a raccontare ancora per molto l’eterna attualità di una storia vecchia due millenni. Altri cinquanta di questi anni, “Jesus Christ Superstar”!
25/12/2021