Serú Girán

Grasa de las capitales

1979 (Sazam)
progressive rock, jazz-rock

Charly García è una delle leggende del rock ispanofono. Idolo nazionale argentino, ha militato in diverse band durante gli anni Settanta, prima di intraprendere la carriera come solista all'inizio del decennio successivo.
I Serú Girán furono la sua terza band (quarta se si conta il progetto estemporaneo PorSuiGieco): per informazioni sul percorso antecedente la loro nascita, si rimanda alla monografia presente su OndaRock. In questa sede, basti sapere che i Serú Girán nascono nel 1978 dalle ceneri dei Máquina de Hacer Pájaros, una delle band di culto del rock progressivo locale. Dopo il loro scioglimento, García se ne vola in Brasile insieme al chitarrista e amico David Lebón (ex-membro dei Pescado Rabioso), alla corte dell’esiliato Billy Bond (cantante politicamente impegnato che, dopo il golpe del 1976, si ritrovò intimidito dal clima a tal punto da voler lasciare il paese).
I due si affidano a Bond come produttore e ripescano il batterista Oscar Moro dalla formazione dei Máquina. Si ricordano poi d’un giovane di belle speranze, ancora poco noto: il bassista Pedro Aznar, che li aveva impressionati dal vivo per i locali di Buenos Aires. Riunito a San Paolo, il quartetto decide di battezzarsi Serú Girán: due parole senza significato, pescate da un linguaggio fittizio abbozzato da García in quel periodo e poi lasciato incompiuto.

Dopo un primo album omonimo uscito nel 1978, sotto l'egida di Bond, la band rientra in Argentina e registra "Grasa de las capitales", pubblicato nell’estate del ’79. Questa volta è García a sedere in cabina di regia, per un’opera realizzata praticamente senza alcun apporto esterno all’infuori del tecnico del suono, Amílcar Gilabert.
Il titolo, letteralmente "Il grasso delle capitali", è una critica senza eufemismi agli aspetti più deplorevoli delle grandi città: la disumanizzazione urbanistica, l'inquinamento ecologico, il degrado culturale ("grasso", nell'argot locale, si riferisce anche alla volgarità del popolano arricchito, che attraverso l'appropriazione di beni materiali e la partecipazione a eventi di prestigio pretende di comprarsi una nuova identità culturale). La critica riguarda principalmente l’Argentina, ma non solo: García era infatti rimasto deluso dai suoi viaggi in Europa. Avendola immaginata polo dell’innovazione, ebbe modo di osservare come, anche lì, le avanguardie artistiche occupassero in realtà una piccola nicchia che si faceva largo fra tabloid e cultura generalista di basso lignaggio. La copertina stessa è una parodia di quei rotocalchi.

La title track concentra una serie impressionante di elementi in appena quattro minuti e mezzo. A una introduzione in due parti (una lunga, con voci armonizzate a cappella, e una più breve, strumentale), segue una sezione cantata in cui si possono contare almeno quattro mini-strofe, caratterizzate da giri armonici differenti (in maggiore, in minore, ascendenti, discendenti per semitoni) e variazioni ritmiche improvvise, sia per Bpm, sia per tempi (il 12/8 in corrispondenza del coro “No se banca mas”, che compare a 1’ 30’’ circa, spezza il 4/4 precedente e successivo). La terza mini-strofa è la più inaspettata, con García che – spinto da una base space disco – si sfoga in un vero e proprio rap (si noti che “Rapper’s Delight” della Sugerhill Gang sarebbe uscita solo qualche mese più tardi), pur con la voce modificata da un nastro mandato al rallentatore. Nel centro del brano trova spazio una jam jazz fusion, con una scansione poliritmica in cui il basso suona terzinato sul ritmo in 4/4 dell’hi hat, prima del finale cantato in coro. Il brano si fa notare anche per l’essere il primo esempio della mania autocitazionista di García: a 2’ 10’’ il pianoforte riprende infatti, pur camuffandolo, il tema di “Tango en segunda” dei Sui Generis (la prima band di García). Da qui in avanti, la carriera dell’artista sarà caratterizzata da questa sorta di continua caccia al tesoro.

Il jazz-funk di “Frecuencia modulada”, con Moro che si prodiga in un andamento alla Jeff Porcaro, mentre Aznar e Lebón duellano fra fretless e chitarra acustica, mette ancora più in chiaro la denuncia di cui la band si è fatta portatrice: “Se nella musica che ascolti non c'è più grinta, se i testi hanno perso ispirazione, se nonostante aumenti il volume non c'è più forza, saranno i tempi che si sono svuotati di emozione”. Oggi sarebbe facile confondere questi versi come il lamento di un anziano conservatore, ma per comprenderli bisogna contestualizzarli nel 1979 di un regime che, pur non bandendola, demonizzava la musica rock tramite la propaganda e la contrastava tramite l’abuso d’ufficio (anche fisicamente, grazie alla compiacenza delle forze dell’ordine): allora diventano il grido di libertà di una generazione.

I testi si fanno più deprimenti a mano a mano che ci si addentra nella scaletta. A segnare la svolta dalla satira all’introspezione è in particolare “Paranoia y soledad”, registrata da Aznar e Moro in solitaria, con il primo a cantare e a suonare tutti gli strumenti, eccetto la batteria (che appare peraltro per appena un minuto e mezzo, su 6’ 47’’ di durata). Il brano consiste in un informe vagare fra lente armonie jazz, su un tappeto di pianoforte, chitarra acustica e fretless, con la tenue, malinconica voce di un Aznar non ancora ventenne a cantare versi che riassumono tutta l’angoscia di quel momento storico: “Quanto tempo ancora di paranoia e solitudine. Svegliarsi qui è come morire con la propria distruzione. Cosa bisogna fare per evitare d'impazzire?”. Al riguardo, Aznar dichiarerà: “Erano i tempi in cui pensavamo che il jazz avrebbe cambiato il mondo”. Non la controcultura hippy, non il rock da stadio, non il nichilismo punk, bensì una forma d’arte intimista ed ecumenica, di lunga tradizione, ma sempre ben disposta ai crossover, alle innovazioni e agli incontri multietnici.

Se il primo lato del vinile si chiude col capolavoro di Aznar, il secondo si apre con quello di Lebón, e se uno sembra anticipare lo Stevie Wonder di “The Secret Life Of Plants”, l’altro precede addirittura i Pink Floyd di “Hey You”. “Noche de perros” è infatti una drammatica ballata introdotta dal fretless e culminante in un maestoso crescendo con strati di tastiere e chitarre distorte, riff e assoli. Affiorano, pur senza proclami diretti, gli spettri dei primi desaparecidos: “Questa oscurità, questa notte da cani, questa solitudine che presto ti ucciderà. […] A volte penso alla tua risata. È già troppo tardi e sono stanco di piangere”.

È però García a firmare e cantare il brano che fa infuriare le autorità, tanto da arrivare a bandirlo da radio e televisione, decretandone per contrappasso l’enorme successo di pubblico: “Viernes 3 AM”. Indicata da Spinetta come la più bella canzone del collega, è un’ode al suicidio, come forma di protesta in una società che non lascia respiro alle voci fuori dal coro. Sin dalla prima strofa, che si apre inneggiando a una gelida e triste “Febbre di un sabato blu”, in contrapposizione alla “Saturday Night Fever” edonistica che dominava l’immaginario dell’epoca. Segue una sfilza di tentativi falliti alla ricerca di un’identità e di uno spazio di appartenenza: “Hai cambiato di tempo e di amore e di musica e di idee. Hai cambiato di sesso e di Dio, di colore e di frontiera, ma di per sé, nulla più cambierà”. E quindi la soluzione finale: “Bang bang bang, foglie morte che cadono. Sempre uguale, quelli che non ce la fanno più se ne vanno”. Il titolo, “Venerdi, tre del mattino”, non viene menzionato nel testo: è tuttavia evidente si tratti del momento in cui il protagonista attua l’estremo gesto, il momento più profondo della notte, equidistante tanto dall’eco dei locali in cui si è fatta serata, quanto dalle luci dell’alba. Crea un certo contrasto che un simile buco nero abbia la forma di una tenue ballata pianistica profumata di música popular brasileira (forse con un pensiero rivolto a Milton Nascimento).

García ha tuttavia anche una canzone per chi riesce a trovare la forza di andare avanti nonostante tutto: “Los sobrevivientes”. Canta così la speranza di arrivare a vedere la luce in fondo al tunnel del regime: “Non avremo mai radice, non avremo mai casa e tuttavia, come puoi vedere, questo è il nostro luogo. Vibriamo come le campane, come chiese che si avvicinano da sud, come abiti neri che vogliono spogliarsi”. È anche il brano dove l’artista suona più strumenti: nell’introduzione – che cita la bachiana “Fuga y misterio” di Astor Piazzolla – due pianoforti (uno elettrico e uno a coda) e uno string synth, e nella jam finale la chitarra acustica e un synth basso della Moog, in momentanea sostituzione di Aznar.

Il disco perfeziona così anche quel poco che c’era da correggere nel primo album, imponendosi fra i capolavori del rock progressivo al confine col jazz-rock, per merito in parte di una sequenza di canzoni inarrivabili e in parte di una produzione deluxe, ottenuta mediante un registratore a 24 tracce (una rarità per l’Argentina dell’epoca). Si fa notare la scelta di dare risalto alla sezione ritmica, mixando il basso di Aznar come un contrabbasso e saturando i tom di Moro.

I Serú Girán sarebbero durati altri tre album (due in studio e uno dal vivo), per poi sciogliersi nel 1982. Una sporadica reunion nel 1992, pur di grande successo commerciale, non riuscirà a bissarne i fasti creativi: García era ormai troppo concentrato sulla carriera da solista e riservava ai dischi in proprio le sue cartucce migliori.

Nota – Il disco è riportato in molti cataloghi (nonché in alcuni servizi digitali) come "La grasa de las capitales", ma a ben vedere in copertina non è mai comparso l'articolo iniziale, né all'epoca delle edizioni in vinile, né per le ristampe in cd. 
L'articolo è tuttavia presente, sin dalle origini, all'interno della scaletta, nel titolo della canzone d'apertura: una differenza comunque irrisoria, per quella che è a tutti gli effetti la title track del disco.

04/10/2020

Tracklist

  1. La grasa de las capitales
  2. San Francisco y el lobo
  3. Perro andaluz
  4. Frecuencia modulada
  5. Paranoia y soledad
  6. Noche de perros
  7. Viernes, 3 AM
  8. Los sobrevivientes
  9. Canción de Hollywood