In una carriera durata circa un decennio, gli Unwound sono stati tra coloro che hanno delineato le caratteristiche del noise-rock che ha imperversato nell'underground degli anni Novanta. Assieme ad altre band con cui hanno condiviso etichette e studi di registrazione, hanno inoltre contribuito a consolidare una robusta scena alternativa nella regione del Pacific Northwest americano. Con questo loro settimo e ultimo album hanno infine salutato il nuovo decennio con la loro opera più coraggiosa e ambiziosa.
Come altre guitar band che nell'ultima decade del secolo scorso maneggiavano rumore e melodia, gli Unwound hanno seguito le orme dei classici del post-punk inglese di dieci-quindici anni prima, accrescendone la potenza di fuoco e modellandone le istanze sulla matrice del college-rock anni Novanta più rumoroso e catartico. Nel 1998 gli Unwound (che sono Justin Trosper, voce e chitarra, Vern Rumsey, basso, e Sarah Lund, batteria) pubblicano "Challenge for a Civilized Society", un disco che aliena alcuni dei fan di vecchia data con una mescolanza di brani scattanti e aggressivi, e dilatazioni ispirate al post-rock e alla psichedelia. Ancora una volta l'ortodossia di una corrente del popolo indie si frappone tra una band e la sua evoluzione e maturazione stilistica, non appena queste non si allineano all'ottuso dogma del less is more.
Giunti a questo punto, i tre non possono che calcare la mano: nell'aprile 2001 esce "Leaves Turn Inside You", un doppio album che saluta il nuovo decennio con una raccolta di canzoni che scalano vette finora mai toccate dal rock indipendente americano anni Novanta. Ancora una volta è il disco della maturità a contenere i più grandi cambiamenti nella formula di un gruppo indie, contraddicendo la teoria tanto romantica quanto mai dimostrata secondo la quale un gruppo rock sarebbe in grado di innovare solo nel corso dei suoi primi lavori. "Leaves Turn Inside You", infatti, non è un disco iconoclasta né rivoluzionario. I tratti che costituiscono una novità sono semmai frutto della cura dei dettagli, della maturazione dei tre musicisti e compositori, e proprio di quel manierismo che è solitamente tipico di una band adulta.
Ascoltandone i ritmi serrati, i vocalizzi filtrati, i testi più che mai criptici e i suoi anti-riff, non si può che ritrovare una versione mutata dello stile che era tipico di quell'indie rock cerebrale e astratto che, coltivando i semi piantati da gruppi come Mission of Burma, Sonic Youth, Wire, Gang of Four e Big Black, ha creato nel corso degli anni Novanta una lingua propria, fatta di pause e accelerazioni, tempi dispari, accordature inusitate, esplosioni catartiche e testi cerebrali ed enigmatici. È proprio con quest'album che tale genere trova la sua forma più bella e ricercata. Spesso paragonato a "Daydream Nation" dei Sonic Youth per il suo status di doppio album e di classico del noise-rock, "LTIY" chiude un'era del rock indipendente che, per motivi al di fuori dell'influenza del disco (che di certo non è stato un bestseller), cambierà poi forma, slegandosi gradualmente dalla distorsione e dagli amplificatori e abbracciando con meno diffidenza influenze più classiche e pop. Non è un caso che nel 2001 un altro gruppo fondamentale dell'era post hardcore, i Fugazi, abbiano pubblicato il loro album più inventivo e trasversale. E, ancora una volta, non è un caso che entrambe le band si siano sciolte poco dopo, disperdendosi in una miriade di progetti paralleli e collaborazioni più o meno significative. Difficile del resto spingersi oltre i confini tracciati dal linguaggio espressivo di "Leaves Turn Inside You" rimanendo confinati allo stesso genere.
La scaletta include alla fine di ciascuno dei due dischi (titolati rispettivamente "2" e "3") due brani che sfiorano o superano i dieci minuti. Non è solo la durata degna di una suite a rimandare al rock progressivo, tuttavia. L'intero album si basa sulle impalcature tipiche del rock alternativo anni Ottanta-Novanta, ma gli arrangiamenti e i ricami strumentali che ne costituiscono la pasta sonora sono spesso suonati con il mellotron. La tastiera che compare in dozzine di brani che hanno fatto la storia della psichedelia e del progressive fa capolino in più occasioni, simulando partiture orchestrali e riempiendo i vuoti lasciati dalle armonie di chitarra e basso. Non è la prima volta che una band noise-rock si munisce di tastiere vintage (si pensi ai Brainiac e ai loro assoli di synth ululanti), ma nessuna band della scena ne aveva fatto un uso così totale e capillare prima di allora.
Registrato per la gran parte nel 2000, "Leaves Turn Inside You" è infatti un disco che fa dello studio di registrazione la sua massima virtù. Dopo anni passati a collaborare col produttore Steve Fisk, la band decide di allestire uno studio proprio e lavorare sulla tavolozza di colori che già andava allargandosi con i precedenti due album. Ad aiutarli stavolta sarà il produttore indie Phil Ek. Se le canzoni di livello non sono mai mancate nella loro discografia, questa volta è la produzione a fare il salto di qualità, con una quantità di effetti inusitata e un lavoro sulle armonie possibile solo nell'ambiente dello studio di registrazione (il disco sarà eseguito dal vivo col classico power-trio).
L'album si apre in modo provocatorio, con un drone acuto e lancinante che sfuma dopo un paio di minuti in una ballata dal sapore spaziale dall'enigmatico titolo "We Invent You". L'urlo catartico non è più il modus operandi preferito di Trosper. La sua voce resa irriconoscibile dal riverbero suona semmai come un sonnolento richiamo ("Collect your belongings / Follow me in reverse"). Salta all'orecchio l'orchestrazione onirica che sovrasta le linee di chitarra, ridotte a pochi accordi ossuti.
Nella filastrocca gotica "Look A Ghost" i ricordi di una persona (defunta?) si mescolano agli interni claustrofobici di una casa da incubo: "You knew her from before/ she hid behind the door/ You never noticed that/ the hallways turned to black/ The stairway is a chance/ to fall and break your hands/ She just might push you down/ so never turn around". L'arrangiamento tanto essenziale quanto drammatico vede continui stacchi della sezione ritmica (mai stata così espressiva), ghirigori di chitarre arpeggiate ed effetti stranianti di tremolo.
La gamma di stili include formati con cui il trio non si era finora cimentato. Se il lentissimo giro di pianoforte e chitarra imbevuta di eco del mastodonte post-rock "Below The Salt" (quasi undici minuti di continua tensione senza rilascio) è qualcosa che ci si può aspettare da un gruppo di estrazione indie-rock nordamericana, la ninnananna psichedelica di "Demons Sing Love Songs" batte sentieri del tutto inesplorati. Addolcita dai cori della Sleater-Kinney Janet Weiss e dai toni naif del ritornello, resta sospesa tra la leggerezza di una pop-song anni Sessanta - la linea melodica è doppiata da un clavicembalo - e il gelo suscitato da velati riferimenti al suicidio. Il movimento dell'alternative rock americano, che con il grunge aveva incarnato esplicitamente la depressione della generazione X, diventa adulto. Non c'è posto per l'urlo liberatorio di un Billy Corgan che esorcizza la sua depressione ringhiando "Love is suicide". Lo stesso sentimento di alienazione e smarrimento è camuffato dai simbolismi delle liriche astratte e decostruite di Trosper, che qui canta "I'm the monster standing by your heart/ A life-size figure ashamed to be alive"; "Sometimes I think I'm stranded in hotels/ Hanging from the highest tree in town". Sempre più rassegnato nel singolo "Scarlette": "Cross my heart and hope to die/ Don't recall the reason why".
Lo stesso gusto per il naif riemerge nelle rime nonsense di "Terminus", il primo brano lungo della scaletta, stavolta più simile a una suite progressive in più movimenti come lo era "Valentine Card..." dal loro debutto "Fake Train". Il primo movimento si mantiene su binari più rock, con geometrie di accordi e riff concatenati accompagnati da una batteria marziale - i fan del post-hardcore sentiranno echi di "If It Kills You" dei Drive Like Jehu. Tra il terzo e il quarto minuto la band si lancia in una figura melodica ripresa da più strumenti: prima una chitarra distorta assieme a una effettata col wah, poi delle goccioline di piano elettrico, poi un violoncello, ecc.. Il loop prosegue e vede gli strumenti elettrici sparire progressivamente fino a lasciare spazio ai soli archi. Giusto il tempo di una breve parentesi di musica strumentale da camera ed ecco che la sezione ritmica riprende a suonare un groove malinconico con il suono di un Fender Rhodes carico di vibrato a fare da padrone.
Di post-rock ne devono aver ascoltato parecchio ai tempi: in "October All Over" la linea melodica principale è suonata da una chitarra pulita alla Slint, tuttavia l'effetto non è quello della catalessi, poiché la sezione ritmica se ne esce con un inaspettato funk saltellante. Un sottofondo di miagolii di chitarra in reverse e il solito accompagnamento di mellotron stemperano gli spigoli e danno un senso di liquefazione.
"One Lick Less", all'inizio del secondo disco, rappresenta pù di ogni altra canzone l'estetica di "LTIY". La struttura armonica è quasi basilare, mentre l'arrangiamento consiste in un continuo ammassarsi di ululati elettrici, accordi evanescenti e svogliatissimi cori sonnambuli. Le armonie ammiccano in modo abbastanza esplicito allo shoegaze, con le chitarre quasi completamente prive di attacco che creano mulinelli di echi mandati al contrario, simili a quelli che Kevin Shields suona in "Loveless". Ma se lo shoegaze immortala il momento di massima estasi e la perdita di controllo predicate dalla cultura rave dei primi anni Novanta, la nenia gotica "One Lick Less", lenta e solenne, sembra fotografare la successiva discesa verso un sonno pesantissimo. Bisognerà aspettare la fine degli anni Duemila per veder rifiorire questi suoni e queste suggestioni nel mondo dell'indie-rock: le esplosioni nel finale di "Off This Century" non anticipano forse il mix di kraut-rock, jingle-jangle e shoegaze dei Deerhunter?
Come già accennato, il disco conserva le radici post-punk su cui la band di Olympia WA ha costruito la propria carriera, ma le nasconde con furbizia sotto una fitta coltre di cori ed effetti. Il singolo "Scarlette" si svolge su un giro di basso ruvidissimo (gli Unwound che fanno i Big Black che fanno i Gang of Four), una pioggia di accordi martellanti, e ultra-filtrate. Niente di nuovo in casa Unwound, ma le idee sono pienamente rilette alla luce del nuovo sound. Va menzionato il testo, che sembra grondare rabbia per la fine di una relazione sentimentale, in tutta probabilità il meno criptico della raccolta. Anche nel ritornello balbuziente di "Treachery" e nel giro ipnotico di "Summer Freeze" si può rintracciare il paradigma dello stile-Unwound, seppure annebbiato dalla strumentazione allargata ai synth della prima, e dalle armonie vocali da zombie della seconda.
Laddove la maggior parte dei gruppi di punta del noise-rock anni Novanta come Polvo e Shellac è arrivata spompata al 2000 (ammesso se ci siano arrivati), pubblicando dischi sempre più cervellotici e auto-referenziali, gli Unwound hanno riservato il loro capolavoro proprio per l'inizio del decennio successivo. Come anticipato, "Leaves Turn Inside You" è un punto d'arrivo, più che una svolta. Un disco importante proprio perché alza l'asticella degli standard di qualità del genere, trovando la perfetta combinazione di sentimento e arroganza, cervello e muscoli. Abbracciando anche elementi post rock, "LTIY" si impone come uno scomodo termine di paragone nel genere, che infatti dopo questo doppio album e quello pubblicato l'anno prima dai canadesi Godspeed You! Black Emperor si ridurrà a una diaspora di gruppi-clone impantanati nelle stesse strutture e schiavi degli stessi cliché.
26/02/2017