Ryan Adams sta cercando di battere qualche record. Non può esserci altra spiegazione. Far uscire tre album in un anno (di cui uno doppio) è un'impresa (aggiungiamoci pure una collaborazione alla colonna sonora di "Elizabethtown" di Cameron Crowe) d'altri tempi, e che solo i più grandi possono permettersi. E Ryan Adams, pur essendo bravo, talvolta molto bravo, non aveva la stoffa per fare tutto ciò.
Difficile ricordare altri autori altrettanto prolifici, altrettanto eclettici, e suvvia, altalenanti. Vengono in mente David Bowie, Prince, Bright Eyes.
"29" (uscito a dicembre 2005 in America e da noi a fine gennaio 2006) è la conclusione della trilogia country iniziata a maggio con il doppio "Cold Roses", il migliore del lotto, sospeso tra atmosfere psichedeliche alla Byrds e Grateful Dead.
E' toccato poi al meno riuscito, ma comunque godibile, "Jacksonville City Nights", che virava sul country puro (e che ha scontentato molti fan di Adams). In entrambi i lavori Adams ha usufruito dell'aiuto di una vera band, i Cardinals, con risultati soddisfacenti.
In "29" l'atmosfera si fa più cupa e intimista, niente più Cardinals, solo Ryan Adams e il produttore Ethan Johns (che già aveva lavorato con lui in "Heartbreaker" e "Gold"). Arrangiamenti spogli, chitarra e piano, tanta voglia di cantare le piccole grandi storie che hanno reso mitica la provincia americana.
Ma Adams non è né Bruce S pringsteen né Neil Young, e appare chiaro che la fretta di far uscire il terzo disco nel giro di un anno, non ha giovato al risultato finale.
"29" appare così come un disco fatto di intuizioni spezzate, buone idee non sfruttate a pieno.
I pezzi degni di nota ci sono eccome, come l'iniziale title track blues-country, o una "Carolina Rain" quasi toccante nella sua semplicità, ma anche "Night Birds", che si avvicina alle atmosfere di "Love Is Hell" e la latineggiante "The Sadness".
Il resto è il nulla o quasi: brani come "Strawberry Wine", "Blue Sky Blues" o "Starlite Diner" sono solo occasioni sprecate, brani emotivamente freddi, prolissi, dagli arrangiamenti eccessivamente scarni.
Quindi, tanto di cappello alle nobili intenzioni di Ryan Adams. Ovvero il voler dimostrare che un musicista può scrivere e pubblicare, se solo lo vuole, tutti gli album che vuole, senza obblighi d'etichetta.
Il problema è che Adams, dopo "Jacksonville…" non aveva assolutamente più nulla da dire, o quasi. Perché nonostante i tanti difetti, "29" è un album sincero, pieno di promesse e lacrime, che se avesse goduto di una stesura e di una lavorazione più attenta, avrebbe potuto trasformarsi in un grande lavoro, degna controparte country-folk del mai abbastanza elogiato "Love Is Hell".
15/12/2006