Guardate la copertina di "Yellow House" dei Grizzly Bear: raggi morbidi di tiepido e pallido sole che creano giochi di luci e ombre nell’angolo di una casa dal mobilio antico e spigoloso: quasi un anticipo di ciò che verrà una volta premuto il tasto play.
Archi e fiati introducono un piano di un tempo che fu e danno inizio a uno dei dischi più affascinanti che questo 2006 ha portato con sé, questa seconda fatica dei Grizzly Bear, progetto nato al singolare dalla mente di Edward Droste, giovane newyorchese di Brooklyn, già capace di piccole magie nel debutto dell’orso grizzly, "Horn Of Plenty", edito dalla Kanine Records nel 2004 (seguito poi da un disco di remix ad opera di gente del calibro di Soft Pink Truth, Dntel, Solex, Final Fantasy etc).
Ora che Edward non è più solo alle prese con le sue intuizioni, tutto sembra aver trovato una giusta dimensione; egli stesso preferisce considerare "Yellow House" il vero e proprio debutto del progetto Grizzly Bear. Effettivamente, riascoltando quel disco prodotto in solitaria, ci si accorge di quanto l’avvento di Christopher Bear, Chris Taylor e Daniel Rossen sia stato cruciale: il songwriting di Droste, già molto buono, ora può godere di arrangiamenti ricchi ma mai tronfi o pomposi, mai gratuiti.
Si diceva della traccia d’apertura, "Easier", una canzone davvero emblematica in questo senso, in cui non si contano gli strumenti coinvolti e che, comunque, riesce a non deragliare mai su binari morti. Una spirale vertiginosa di influenze e suoni, con coretti che riportano alla mente la Bjork di "Bachelorette" e un senso della melodia obliqua di cui Arthur Lee dei Love sarebbe fiero.
"Lullabye" è sospesa tra due atmosfere agli antipodi: la prima parte, sognante ed eterea, con luccicanti rintocchi di glockenspiel e chitarre pulite e armoniose, mentre la seconda è tesa, presa dalla vertigine perfettamente resa grazie all’uso corale delle voci che salgono sempre più, sorrette da una batteria distorta e marziale. Un suono profondo e sapiente quello che i quattro ragazzi sono riusciti a catturare e, soprattutto, ideale per la rotta che le canzoni indicavano.
Se a volte è il senso di straniamento creato dal suono a prendere il sopravvento, altre è la canzone a prendere per mano, uscendo allo scoperto sin da subito, come nel caso del singolo "Knife", anch’essa ricca e sontuosa, ma più libera di respirare proprio perché più adatta a farlo rispetto ad altre composizioni di questo disco.
Se l’uso delle voci talvolta può e deve ricordare i Beach Boys di "Pet Sounds" e "Smile", l’impalcatura sonora non è poi così catalogabile. Giusto sentire gli Animal Collective, l’Elliott Smith meno pop (l’inizio di "Little Brother", ad esempio), i Black Heart Procession dei bei tempi ("Plans" e "Marla", quest’ultima di una palpitante e purpurea bellezza) e i Love di "Forever Changes". Giustissimo. Eppure è tutto così sapientemente mescolato, così personale e vero, da non far apparire i Grizzly Bear come debitori nei confronti dell’uno o dell’altro nome altisonante. "On A Neck, On A Spit", forse la canzone più riuscita per equilibrio e varietà, vive proprio di questo: una continua serie di reminiscenze di suoni e di attitudini altrui sempre sotto il livello di consapevolezza.
C’è, ed è caratteristica vitale per una raccolta di canzoni, vera passione. La si può sentire senza troppo sforzo, proprio perché riversata in ogni angolo di questo magico album che più si fa suonare e più svela ogni sua sfumatura, ogni tonalità o forma esaltata dalla luce o resa misteriosa e fascinosa dall’ombra.
10/10/2006