Secondo album ufficiale per la band di Atlanta e primo a uscire su Kranky, “Cryptograms” è un disco dal duplice volto: da un lato, una psichedelica ambientale impregnata di echi garage; dall’altro, uno psych-pop nemmeno tanto originale, ma malandrino quanto basta per farci subito affezionare. La stessa sequenza dei brani mostra, netta e incontestabile, questa sensibilità bifronte, questa incapacità (perché, in fondo, è di questo che si tratta) di sintetizzare in un corpo unico e inscindibile sonorità anche molto distanti tra loro.
Dopo un’introduzione a base di scrosci d’acqua, pulsare ipnotico e frequenze astrali, la title track incomincia a tratteggiare, con dei Six Finger Satellite a basso voltaggio, i contorni della prima faccia della loro medaglia. La musica ha un non so che di trasandato, come copione impone, ma la scenografia ambient e i rigurgiti lisergici sanno di grandeur romantica, di afflato misticheggiante. Ne è un esempio clamoroso l’armonia “ultravioletta” à-la Tim Hecker di “White Ink”, mentre su di un piano più evocativo si situano il lirismo aereo di “Tape His Orchid” e il vaneggiamento new age indianeggiante di “Providence”.
Il balletto finto-industriale di “Lake Somerset” suona un po’ come una jam tra Grifters e Simply Saucer, mentre precedendo il languido drone in modulazione di “Red Ink”, “Octet” tratteggia una delicata panoramica spacey, di quelle che la melodia è tutta un'ascensione di piccoli, sottilissimi sussulti.
Si diceva di una sensibilità bifronte dei Deerhunter. Ebbene, a partire da “Spring Hall Convert”, le cose tendono sostanzialmente a cambiare. La matrice psichedelica è sempre presente, ma questa volta è il pop a rappresentare il nucleo centrale della loro ispirazione. La dolceamara “Strange Lights” ci porta per mano in una swinging London incantata. Dentro le tessiture e le armonie di “Hazel St.” si sentono echi radiosi di Byrds, ma come filtrati da una sensibilità pop d’ascendenza post-punk, di cui si nutre anche la conclusiva “Heatherwood”.
Insomma, un lavoro estremamente piacevole, anche (e, forse, soprattutto) per quella sua sotterranea aria di pressappochismo artistoide. Tuttavia, la sensazione è che la band possa fare di meglio, armonizzando con maggiore naturalezza le sue disparate influenze.
(30/12/2006)