L’errabondo microcosmo dei duo uomo-donna, sia accorato conguaglio melodico (Mates Of State, Handsome Furs, OMD) che deragliante organismo fantasy-rock (Fiery Furnaces, Besnard Lakes, Young People, Hello Blue Roses), sia graffiante blues-revival (White Stripes, Kills, Noisettes) che alieno folk-psych da camera (tardi Swans, Charalambides, Sepiatone, White Magic), ha trovato il suo più importante soffio vitale nei primi Royal Trux. Volendo, è possibile scorrere l’intera storia dei duo uomo-donna come una ramificazione sempre più fitta e sofisticata delle prime esperienze de-costruzioniste di Herrema e Hagerty (culminate con il monolito di "Twin Infinitives"). I To Kill A Petty Bourgeoisie, al debutto su lunga distanza (dopo una serie non meglio precisata di uscite su 7", tra cui uno split con Cristal e un l’Ep "Retire Early" del 2006), in un certo senso, riportano tutto a casa.
Provenienti da Minneapolis, Jenha Wilhelm (voce, multistrumentista) e Mark McGee (multistrumentista, elettronica) cementano anzitutto piece per voce femminile e arrangiamenti vellutati che molto devono al rock electro-atmosferico (in primis trip-hop e dream-pop), ma poi le sventrano con strati e strati di elettronica noise, fino a renderne irriconoscibili i connotati, pur mantenendone intatta la potenza espressiva: esattamente lo stesso procedimento di "Twin Infinitives", solo che il pretesto - stavolta - non è più il blues-rock d’antan, ma del materiale altero già in partenza, pure sfigurato fino alle estreme conseguenze, fino a mostrarne tutte le possibili catastrofi sonore.
Il disco si apre sul colpo lancinante della title track, su un magma da cui emerge a poco a poco il beat e la cantilena, come un lento rituale oscuro con noise digitale in sovrimpressione (ancor più caotico e disorientante), che accende letteralmente il chorus dolente e dà il via a una transizione devastante e variazioni sulla struttura. Gli otto minuti di "The Man With The Shovel" accostano una figura minimale di tre note alla Charalambides a un coacervo d’onde distorte, con ritmo glitch in stile marcetta sincopata che monta via via, fino a che la distorsione non si sostituisce in toto alla base ritmica, a condurre il pezzo verso una sorta di respiro elettronico continuamente sfaldato in senso cosmico. Così dicasi per le note espanse su sottofondo gorgogliante di "Long Arms", altro brano che miscela convogli stellari a loop vocali alieni, e che poi li conduce a un crescendo rumorista dall’enfasi subliminale (piatti, vocalizzi, percussioni e rumori), guidata da una silenziosa, impercettibile, mistica armonia.
"Lovers & Liars" attacca dalle percussioni (batteria e tintinnii di triangolo) su cui s’innesta un arpeggio monoaccordo di acustica: è il preludio a uno scenario foschissimo di rumore ventoso, cui il canto folk-depresso ha il compito di intensificare apportandovi conguagli industrial-tronici; mentre l’apparato noise prende a battere il tempo in modo casuale, poco niente interessato agli avvicendamenti della composizione (un tripudio di battimenti e ghirigori dissonanti), il tutto diventa mostruoso ritornello anti-armonico di vocalizzi alla Jarboe su linea vocale assorta e free-form, doppiati da un’apocalisse di robot e umanoidi inferociti. Tutto sfuma sull’acustica iniziale, solenne e rassegnata.
Il brano che più s’avvicina alla forma-canzone - "With Brass" - è anche il più deturpato: una lenta processione in forma di riff ventoso intonato da centinaia di dannati, in risonanza con gli inferi, su canto trip-hop (ma da far spaurire Bjork e Portishead più cupi), pure intervallati da bridge industriali e corali.
In "You Guys Talk" (una delle più complesse e mortificanti) s’inizia con sibili di tornado lontano, e un tema di chitarra acustica, quasi un nursery-rhyme velato. Le sformature dei timbri si fanno via via sempre più insistite, quasi a richiamare l’umore rarefatto dei lied espressionisti di Webern, mentre emerge un fading elettronico alla Xenakis, e un tifone noise alla Dead C. Il tutto è letteralmente sminuzzato da un abisso di dissonanze elettroniche che lo tramuta in landa glaciale di macerie ambientali, loop, ecosistemi microcellulari glitch. Ma "I Box Twenty" riesce a reggersi - per tutta la durata - su di un’armonia esilissima, sulla quale pure infieriscono senza pietà rimbombi e distorsioni, e la cui conclusione è una magica, spettacolare sequenza di deterioramento acustico.
Il finale di "Very Lovely" è quindi liberatorio, soprattutto nelle invocazioni wordless di Jenha (una specie di Jeanne Lee paradisiaca), a elevarsi su batteria e distorsioni possibilmente ancor più dissociate e fuorvianti, e specialmente dopo ben quattro minuti di pesante dark-ambient atonale di rincorse spettrali, scontri dissonanti alla Ussachevsky, corde acustiche che diventano accordi demoniaci, gorgheggi indefiniti.
Le tracce brevi, pur non reggendo il confronto con le grandi piece dell’album, sono minuti gioielli avanguardistici. "Dedicated Secretary" è un’oasi di frammenti sonici (pattern instabili, nebulose, tonfi cosmici, testure screziate) che scolpisce trilli di carillon a emergere dalla nebbia. "Window Shopping", la chiusa, è una concisa opera di rimodellazione timbrica vicendevole, a partire da sciami elettro-acustici, cut-up e reverse, riverberi mistici, ad arrivare a una ninnananna che riesce a rendere docili le pur terribili cacofonie che la circondano.
Tema guida dell’album è - prima di tutto - il divinatorio avvicendarsi tra le forze dell’Ade (i beat psicotici, il labirinto di muraglie di suono indefinito, gli squarci magmatici di frastuono bianco) e il canto sibillino, raddolcito, ignaro - o terribilmente consapevole - etereo ma pragmatico. Ma questa è musica condotta da un sapiente senso dell’equilibrio, che macina eoni di musica dell’equilibrio: sottigliezza concettosa e godibilità non facile. Al terzo livello ci si scontra con le meccaniche più precise, i congegni e le rime interne, gli innumerevoli conduttori di forza primigenia, i campioni, le tecniche miste, gli alimentatori del rumore instabile aleatorio, cioè laddove la produzione sonora funziona come un’orchestra dodecafonica suonata da alieni metallurgici.
C’è qualcosa di più, a caricare l’opera di sconcertante esosità, c’è un senso d’affanno che scatena l’affossamento esistenziale. Uno scorcio panico che risuona libero nell’inconscio. Già detentore di un discreto giro di concerti-culto, "The Patron" pone ora il duo (ormai in pianta stabile su Kranky) al vertice della corrente electro-noise relativa alla community 804noise, insieme con i fondatori Harm Stryker e gli amici Narcotic Dreams, di cui McGee (aka MAKR) cura l’apparato grafico.
01/11/2007