Nella lunga lista degli autoproclamati genii dell'avanguardia contemporanea spiccano per ubiquità due personaggi: John Zorn e Mike Patton. Secondo l'antica legge del "Dio li fa e poi li accoppia", il progetto "Moonchild" li vede di nuovo assieme, coadiuvati dai fedelissimi Trevor Dunn e Joey Baron.
La formula dei due dischi è presto riassunta: un micidiale math/sludge al vetriolo, a metà strada tra le pazzie zeuhl dei giapponesi Ruins e le paludi viscosissime dei Melvins. Questo è l'apporto dell'impagabile duo Dunn/Baron: quello del leader di Mr. Bungle e Fantômas consiste in un'indescrivibile accozzaglia di strilli, gorgheggi, versi di ogni genere e specie, grugniti e qualsiasi altro suono sia in grado di far produrre alla sua ugola e ai gingilli elettronici con cui la potenzia. In un contesto del genere sembrerebbe facile trovare spazio per le pernacchie onanistiche a cui John Zorn ha abituato fan e detrattori, ma per questa volta i secondi possono tirare un sospiro di sollievo: il sassofonista ha preferito concentrarsi unicamente sulla direzione di questa efferata baraonda.
Il primo dei due album, chiamato semplicemente "Moonchild", sembra dare a intendere che l'ingrediente fondamentale per la riuscita di una simile ricetta non sia un segreto: pestare e sbraitare come indemoniati. Il combo Baron/Dunn non perde un colpo, e inanella una spettacolare gragnuola di metri dispari e riff forsennati, fatti di sciabolate nerissime mischiate a convulsioni noise/thrash. Patton si limita a svolgere un ruolo di contorno, e riesce a condire gli sbudellamenti sonici dei due con un'opportuna prestazione vocale da martirio e/o esorcismo.
I titoli sono senza dubbio programmatici: "Fuoco infernale", "Abraxas", "Caligola", "Possessione", "Il parto maledetto", "L'evocazione", "Fattucchiera". Nell'ombra, Zorn mantiene sapientemente gli equilibri (o gli squilibri?) del rito sacrificale facendo alternare mitraglianti parti strumentali, raffiche vocali ben oltre l'iperventilazione e rari momenti di riposo.
"Astronome" si articola invece su soli tre brani, lunghi un quarto d'ora l'uno e dalla struttura meno evidente. L'alchimia dei ruoli è leggermente meno schematica rispetto al precedente disco: il basso di Dunn si concede più spesso incursioni su frequenze medio/alte, appropriandosi in parte dei territori di Patton, e nel complesso l'interplay tra il "cantante" e gli strumentisti è più serrato e aperto a sviluppi imprevisti. Più volte si assiste ad avvincenti schemi azione-reazione, in cui la batteria di Baron spezza di proposito i latrati da sgozzamento di Patton.
Le orecchie dell'ascoltatore di certo non trarranno un gran giovamento dal punto di vista fisiologico, e neppure i rapporti col vicinato, essendo questo un disco da ascoltare a massimo volume e il materiale contenuto piuttosto distante dagli ascolti usuali di persone psicologicamente stabili. Ciononostante, i due dischi si sono rivelati estremamente divertenti ed entusiasmanti, per non dire esaltanti, e almeno il primo ha saputo mantenersi tale anche dopo diversi mesi e riascolti dall'uscita.
Non solo, uno a piacere dei due dischi può essere scelto come rappresentante di una "presa di coscienza" da parte del math-noise batteristico che in questi anni è stato sviluppato da band come Lightning Bolt, Talibam!, Orthrelm, Arab on Radar, Noxagt. Presentandosi come prodotto di improvvisazione controllata e supervisionata, con la voce (già talvolta pesantemente filtrata nelle band citate) sfruttata come elemento destabilizzante e cacofonico piuttosto che come base melodica o ritmica, il lavoro dei Moonchild sembra indicare un ulteriore passo astrattivo del genere.
Chi è pratico di insiemistica si sarà imbattuto nel "Lemma di Zorn"; questa accoppiata di lavori sembra invece un'ulteriore argomento a favore di un omonimo principio musicale: quando Zorn si limita a dirigere e Patton a eseguire, i risultati sono molto più accessibilmente godibili che quando i due si calano nella parte del compositore/esecutore.
13/03/2007
Moonchild
Astronome