Una camera d'albergo, in qualche angolo dell'America. Il cassetto di un comodino, uguale a mille altri. Dentro, il libro attende come una memoria silenziosa. Qualcuno lo apre per devozione, qualcuno per filologia, qualcuno perché non gli è rimasto nient'altro da tentare. John Darnielle decide di aprirlo semplicemente per cercare tra le sue pagine un pezzo della propria vita. È un passo della Lettera ai Romani, quello che si trova di fronte, e in quel momento gli sembra scritto apposta per lui: attraverso quelle parole, la musica che custodiva senza riuscire ancora a esprimere comincia a prendere forma.
Se Bob Dylan, ai tempi di "John Wesley Harding", si vantava di avere realizzato il primo album di "rock biblico" della storia, che cosa dovrebbe dire il leader dei Mountain Goats, che ai versetti della Bibbia ha deciso addirittura di intitolare ognuno dei brani del suo nuovo disco? Ma niente paura, non è la parte del predicatore che gli interessa: la Bibbia, per John Darnielle, è anzitutto il libro dell'esperienza. "Queste canzoni sono le dure lezioni che la Bibbia mi ha insegnato, più o meno". Lezioni che non suonano mai come una spiegazione a buon mercato, ma piuttosto come una sfida continua al proprio modo di guardare le cose.
Le canzoni di Darnielle raccontano come sempre l'impatto con la realtà in tutta la sua crudezza. Ma le citazioni richiamate nei titoli suggeriscono prospettive inaspettate, nuove ipotesi di giudizio: l'affastellarsi di circostanze della vita assume i contorni dell'esperienza piena.
Prendete ad esempio il dipanarsi vivace di "Genesis 3:23", in cui Darnielle affronta il senso di straniamento del ritorno in un luogo un tempo familiare, ingombro dei fantasmi del passato: fantasmi tormentosi, come quelli che albergano nei drammatici ricordi confessati dal songwriter americano sin da "The Sunset Tree". Eppure, il versetto cui è dedicato il brano parla della cacciata dall'Eden, della nostalgia di un paradiso perduto: come dire che, anche negli anfratti più oscuri della vita, si nasconde sempre una promessa misteriosa. "Se torni nei luoghi dove hai sofferto, scopri che lì c'era qualcosa di più di ciò che ricordavi, qualcosa di cui senti la mancanza perchè è parte di te. Ogni luogo che hai lasciato è in qualche modo l'Eden".
All'inizio non c'è che qualche sparuto accordo di chitarra. Un sussurro, il fremito dei piatti e un rimbombo lontano di percussioni. Sembra di essere tornati alla nudità di "Get Lonely", a giudicare dal prologo di "1 Samuel 15:23". Ma subito "Psalms 40:2" rimette tutto in discussione, con la voce nevrotica di Darnielle a mordere i versi su un ritmo netto e vibrante, verso un climax denso di tensione liberatoria. Al suo fianco ci sono solo Peter Hughes al basso e John Wurster alla batteria, con il supporto di Scott Solter alla consolle: "The Life Of The World To Come" (che nell'edizione limitata comprende anche un secondo disco con i demo di quasi tutti i brani e un pugno di significative outtake) privilegia l'intimità, ma non disdegna occasionali impennate nello stile del precedente "Heretic Pride".
Tra i delicati profumi caraibici di "Philippians 3:20-21" e il pianoforte desolato di "Genesis 30:3", gli archi arrangiati da Mr. Final Fantasy Owen Pallett portano alla memoria la levità liederistica degli Eels With Strings, che sembrano materializzarsi in brani come "1 John 4:16". È dal punto di vista lirico, però, che il nuovo disco si candida a figurare tra i capitoli più intensi della discografia dei Mountain Goats.
"C'è una connessione tra quello che chiamiamo divino e la musica", afferma Darnielle. "Sembrano permanentemente e inestricabilmente legati". Ma non è un misticismo astratto, il rapporto di Darnielle con il divino: nasce dalla concretezza della sofferenza, del sacrificio, della morte. Cose di fronte alle quali non basta una risposta consolatoria: "Nice people said he was with God now / Safe in his arms", canta il songwriter americano in "Philippians 3:20-21". "But the voices of the angels that he heard on his last days with us / Smoke alarms". Se la vita del mondo che verrà non è sperimentabile qui ed ora, il presente è condannato al vuoto.
Darnielle si accosta al capezzale della madre di sua moglie tra le note diafane di "Matthew 25:21" e la caducità dell'esistenza gli appare come l'ultimo istante di consapevolezza prima di un incidente fatale. È da quella vertigine insostenibile che risorge la speranza, è dal profondo della propria miseria che si leva pieno di veemenza il grido di "Psalms 40:2": "He has fixed his sign in the sky / He has raised me from the pit and set me high".
Il libro è ancora aperto sulla stessa pagina. "Romans 10:9". Intorno a quelle parole è sbocciata una melodia luminosa, incalzata da una nitida linea di basso. "If you will believe in your heart / And confess with your lips / Surely you will be saved one day". In un istante, la dottrina del dubbio è spazzata via dalla certezza che il cuore è fatto per fidarsi, la promessa per essere compiuta: basta andare fino in fondo al proprio desiderio. "La maggior parte della gente della nostra generazione vuole dire di pensare con la propria testa. Io preferisco pensare con la testa di un altro, e poter dire: 'Ho fiducia in te'. Questa, secondo me, è la cosa davvero interessante".
08/10/2009