Il pozzo oscuro della solitudine. Quella sembianza di libertà che rende estranei persino a sé stessi, soli anche nella moltitudine della folla. La porta che si chiude con un rumore sordo e la vertigine del vuoto che assale alla gola. È da qui che parte il nuovo viaggio di John Darnielle nelle terre dell’abbandono: da quell’istante in cui l’intero universo sembra dissolversi in un deserto di silenzio.
L’etichetta di concept non riesce a rendere giustizia all’essenza dei lavori targati Mountain Goats: si tratta di qualcosa di più vicino all’unità narrativa che lega intimamente una raccolta di racconti. Del resto, il songwriting di Darnielle si caratterizza da sempre per l’inconfondibile sensibilità del novelliere appassionato ad ogni dettaglio della realtà. E così, il leitmotiv di “Get Lonely” si presenta sin dal titolo come quello della solitudine, descritta in tutti gli aspetti della sua quotidianità. “È come se avessi bisogno di andare in qualche spazio oscuro della mia testa per registrare un disco”, afferma Darnielle. “Il lavoro migliore nasce quando sono arrabbiato, depresso e alienato”.
Una chitarra acustica e la sua acuta voce nasale sono tutto quello che serve a Darnielle per raccontare le proprie storie. In “Get Lonely” gli arrangiamenti sono misurati ed eleganti come non mai, fatti di sfumature e chiaroscuri: un po’ come se Morrissey decidesse di rifondare gli Smiths in compagnia di Robyn Hitchcock, per presentarsi in scena in versione rigorosamente unplugged. Inutile cercare il paragone con il ruvido lo-fi degli esordi, quando Darnielle era solo l’infermiere di un ospedale psichiatrico con l’hobby del songwriter: da quando si sono accasati alla 4AD, i Mountain Goats hanno intrapreso una strada differente, che in questo nuovo episodio trova un equilibrio dal soffuso classicismo. “Un’atmosfera scura ed ombrosa che brucia lentamente”, la definisce Darnielle: più che alla variopinta energia delle crude storie del precedente “The Sunset Tree” è quindi alle tonalità raccolte di “Tallahassee” che occorre guardare per tracciare un paragone con “Get Lonely”. Una formula la cui compattezza ha il solo limite di tradursi a tratti in un’eccessiva uniformità di registro espressivo.
Registrato tra febbraio e marzo del 2006 nella bucolica cornice degli studi californiani Prairie Sun, il nuovo album dei Mountain Goats vede schierato, accanto a Darnielle, un pugno di fidati compagni d’avventura come il bassista Peter Hughes ed il polistrumentista Franklin Bruno, oltre alle percussioni di Corey Fogel, al violoncello di Erik Friedlander ed alla produzione di Scott Solter. Il risultato declina gemme pop come “Woke Up New” e “Half Dead”, panorami desolati come quelli della title track e di “Cobra Tattoo”, cupezze folk come “Maybe Sprout Wings” e “In The Hidden Places”, sfiorando il sussurro della chitarra con il fremito degli archi e le coloriture del piano.
La storia inizia alle prime luci dell’alba, con un pianoforte isolato che riecheggia nel vuoto. Un uomo in fuga da sé stesso lascia la sua casa come se fosse una prigione e si avventura lungo una strada solitaria, al passo cadenzato della chitarra acustica. L’erba selvatica che cresce ai bordi dell’asfalto sembra essere l’unica cosa capace di assorbire la sua attenzione. “Wild Sage” è la sua canzone. La nostalgia della casa è un’onda che si fa sentire solo quando cresce la marea del cuore: “and when somebody asks if I’m ok / I don’t know what to say”.
C’è un senso di straniamento indefinibile, nell’affacciarsi improvviso e brutale della solitudine. Ti ritrovi a riordinare la casa in un giorno di pioggia e non puoi fare altro che concentrarti meccanicamente su ogni gesto, cercando di dimenticare il suo significato. E quasi senza accorgertene ti scopri a fischiettare la melodia sinuosa di “Half Dead” con una malinconia frizzante degna dei Belle & Sebastian di una volta.
Quel senso di libertà che hai provato la prima volta che ti sei svegliato senza di lei è durato appena un istante: poi sono subito arrivate la solitudine e la paura. E hai finito il caffè solo perché lei odia quando sprechi le cose. “What do I do without you?”, si chiede Darnielle in “Woke Up New”, danzando intorno all’angoscia di quel punto interrogativo. Ma la morsa del nulla non riesce a cancellare l’anelito del cuore, ed anche il ritrovarsi improvviso come derubati di una parte di sé può diventare la possibilità di un nuovo inizio, di un’attesa che ritrova la speranza: “Il mondo alla sua fredda maniera cominciò a diventare vivo / ed io rimasi lì come un uomo d’affari in attesa del treno / e mi ritrovai pronto per il futuro in arrivo”.
Così, il finale di “Get Lonely” si distende in una morbidezza memore della lezione dei tardi Go-Betweens, tra la chitarra ed il vibrafono di “In Corolla”: il percorso iniziato al sorgere del sole lungo quella strada nei sobborghi di Durham, North Carolina, si conclude al tramonto sulla riva dell’Atlantico, ed il tepore dell’oceano sembra poter guarire ogni ferita. “Aria salata come un messaggio dalla distante oscurità al di là / quando giunge la mia trasformazione”.
Metamorfosi della solitudine: ma per entrare tra le sue pieghe occorre essere disposti a divorare fino in fondo ogni pagina del romanzo di John Darnielle, senza fermarsi all’apparente monotonia che i colori di copertina potrebbero suggerire.
12/12/2006