“I dischi dei Mountain Goats sono tutti uguali”. Ai tempi della bulimia musicale dell’era digitale, è questa la sentenza che capita più spesso di ascoltare dai detrattori di John Darnielle. Il fatto è che quella dei Mountain Goats è una storia fatta di sfumature, piuttosto che di linee di discontinuità. Ad ogni disco si aggiunge qualche dettaglio, si sposta di qualche passo il centro dell’attenzione, si apre il nuovo capitolo di un unico romanzo.
Ma il nocciolo della questione è ancora quello delle vecchie cassette che Darnielle registrava nel suo spartano lo-fi: gli accenti netti di una chitarra ad accompagnare quella voce dall’enfasi affilata, a cui bastano pochi versi per tratteggiare storie piene di suggestioni. Intorno si sono aggiunti nuovi compagni di strada, si è costruito un suono sempre più organico, si sono stratificate intuizioni ed influenze. Eppure le istantanee dei Mountain Goats sembrano non avere perso un briciolo della loro sincerità.
A chi è disposto a non fermarsi al primo approccio, ecco allora che la nuova fatica dei Mountain Goats si rivela intessuta di un’espressività più diretta rispetto all’ombroso predecessore “Get Lonely”, capace di collocare “Heretic Pride” tra i momenti più rappresentativi della discografia della band dall’accasamento alla 4AD.
Basta ascoltare la ritmica squadrata e scattante di “Sax Rohmer #1” per capire di trovarsi di fronte ad un nuovo classico della creatura di John Darnielle, con l’impeto liberatorio e viscerale di un chorus che si stampa subito nella memoria: “And I am coming home to you / If it’s the last thing that I do”. “Heretic Pride” e “Autoclave” non sono da meno, vibranti di uno slancio tra Neutral Milk Hotel e Go-Betweens. Il fremito inquieto della chitarra di “San Bernardino” si lascia avvolgere da un drappeggio di archi, “So Desperate” si mostra in tutta la sua nuda essenzialità. Se tutto l’album fosse allo stesso livello, saremmo dalle parti del celebrato “The Sunset Tree”: la tensione, invece, si allenta a tratti nella seconda parte del disco, riscattata dai delicati colori punteggiati di pianoforte di “Tianchi Lake”.
Tra le staffilate di chitarra acustica e gli archi drammatici di “In The Craters On The Moon” ed il tagliente riff elettrico e l’incalzare di basso e batteria di “Lovecraft In Brooklyn”, sono le percussioni a conquistare una nuova centralità nella formula dei Mountain Goats. Darnielle si circonda dei consueti sodali, da Peter Hughes a Franklin Bruno, cui si aggiungono vecchi amici come John Vanderslice, che affianca Scott Solter alla produzione, e le voci del Bright Mountain Choir.
Dopo una serie di concept autobiografici, “Heretic Pride” torna a dipingere una galleria di personaggi provenienti dai più disparati universi, metafora di una congerie di sentimenti e desideri: dalle spie cinesi uscite dalle storie pulp del Dottor Fu Manchu, il genio del male nato dalla penna di Sax Rohmer, alla fuga di una giovane coppia attraverso le strade della California con un bambino appena nato; o ancora, dalla maschera di Michael Myers, l’efferato protagonista della saga horror di “Halloween”, allo spietato assassinio del cantante reggae Prince Far I.
La gloria della sconfitta, a volte, risplende più intensamente dell’apparenza di un successo: la sfida sta nel riconoscere la grandezza quando tutto sembra negarla. “Il tema principale del disco”, osserva Darnielle, “è come la gente possa trovare un significato nelle peggiori situazioni della vita, qualcosa capace di rendere lieti in una situazione che porterà sicuramente alla rovina”. Proprio come il protagonista della title track, che anche nel momento in cui viene condotto al rogo solleva lo sguardo senza lasciarsi vincere dalla disperazione: “And I feel so proud to be alive / And I feel so proud to when the reckoning arrives”. “Non posso fare a meno di pensare in questo modo alle persone che accettano di abbracciare la loro stessa colpa”, aggiunge Darnielle.
C’è un senso ricorrente di minaccia che aleggia nelle canzoni di “Heretic Pride”, dal misterioso mostro marino cinese che si nasconde tra le acque del lago di Tianchi fino agli alieni pronti a conquistare la Terra immaginati dal padre della letteratura fantastica americana H.P. Lovecraft. La speranza sta nel coraggio di affrontare tutte le paure con uno sguardo capace di non rassegnarsi mai, di inseguire instancabile ogni barlume di positività: anche nel sordo dolore dell’addio consumato tra i sedili di una macchina di “So Desperate” c’è sempre una boccata d’aria pronta a fare irruzione dal finestrino per parlare del mondo là fuori. Un mondo che continua a scorrere come un fiume verso il suo destino. “And then the water sought its course again the way the waters will”.
29/02/2008