Alan Donohoe, con la sua allure da segaligno (per non dire anoressico) e blaterante secchione, è senz'altro, insieme a Eddie Argos degli Art Brut, uno dei pochissimi esponenti dell'attuale scena indie inglese a non scrivere cose del tutto cretine nei versi delle proprie canzonette un po' sgraziate, e l'impressione che la sua banda si candidi a raccogliere l'eredità dei Fall di sir Mark E. Smith nel nuovo millennio si fa a ogni nuovo disco sempre più forte. Ascoltando i pezzi di "Klang" si nota, ad esempio, come il cantante abbia ormai rinunciato quasi del tutto a cantare, ruminando un bolo pastoso di parole e improperi smozzicati che vengono poi risputati con veemenza un po' dove capita, facendo quasi sembrare questi Rakes una incerta via di mezzo tra i Pere Ubu reinterpretati dalla Bloodhound Gang e una sintesi più compressa e dissonante dei loro pigmalioni Franz Ferdinand (ascoltate il fitto ciacolìo di "Bitchin' In The Kitchen", "Shakleton" o il singolo "1989"). Le chitarre affilano i denti e i cingoli, randellando i tracciati melodici con riff caricati a molla, e le fonti già emerse nei dischi precedenti (Fall su tutti, ma anche Gang Of Four, Cure, Talking Heads, Josef K, A Certain Ratio) vengono rielaborate con una consapevolezza più solida e matura.
Se il gruppo ha un pregio, esso è rintracciabile senz'altro in un certo umorismo obliquo e in una mano nervosa e tremolante che sa rendere godibile la grafia filiforme e frastagliata di pezzi come "Mullers Rachet" (ai limiti dell'hip hop), "That’s The Reason" e "The Light From Your Mac".
Per il resto la band sembra più che altro impegnata nel laborioso tentativo (apprezzabile, anche se per forza di cosa ancora parziale) di messa a punto di un suono scorbutico e riottoso, meno patinato e ruffiano che in passato, in grado di bucare la dorata stupidità della musica più becera e leziosa a suon di sciabolate elettriche e arringhe sguaiate e balbuzienti. La strada da macinare è ancora tanta, ma l'intenzione è lodevole.
(16/03/2009)