La vicenda degli A Certain Ratio è legata a doppio filo a quella dell'etichetta discografica Factory Records, protagonista della scena di Manchester negli anni Ottanta, non solo perché il gruppo è stato uno dei primi a esservi messo sotto contratto, ma perché ne ha incarnato fin dall'inizio l'attitudine sperimentale, prefigurando quel percorso che porterà dai cupi climi post-industriali della new wave all'esplosivo connubio tra rock e dance che deflagrerà a cavallo degli anni Novanta con la scena di Mad-chester.
Nel 1978 il carismatico e mercuriale Tony Wilson, già noto nella scena cittadina come conduttore della trasmissione TV "Granada Reports" organizza, insieme ad Alan Erasmus, una serie di concerti al Russell Club di Manchester, definiti Factory Nights. Ben presto il connubio sfocerà in una vera e propria etichetta discografica, chiamata Factory in onore di Andy Warhol e del suo concetto di arte riproducibile atttraverso processi di produzione in tutto e per tutto simili a quelli industriali.
Wilson si rivelerà presto il vero e proprio catalizzatore della scena musicale cittadina, portando alla ribalta una serie di personaggi che faranno la storia del rock indipendente, tra cui il designer Peter Saville (autore di copertine, poster e grafiche dallo stile modernista e rigoroso), il produttore Martin Hannett e una serie di gruppi, tra cui i Joy Division di Ian Curtis.
Quando Wilson propone agli A Certain Ratio di incidere un singolo, il gruppo è un quartetto comprendente Martin Moscrop e Peter Terrell alle chitarre, Jeremy Kerr al basso e Simon Topping alla voce. Ben presto si aggiungerà, reclutato dallo stesso Wilson, il batterista Donald Johnson. Il nome proviene dal testo di un brano di Brian Eno, "The True Wheel", contenuto in "Taking Tiger Mountain (By Strategy)".
Se la prima uscita Factory è il mitico doppio Ep "A Factory Sample", comprendente brani di Joy Division, Durutti Column, John Dowey e Cabaret Voltaire, "All Night Party" degli A Certain Ratio può vantare il numero di catalogo Fac 5, rappresentando quindi una delle primissime uscite musicali della etichetta, che ha la tendenza ad attribuire un numero a qualsiasi cosa prodotta (una spilletta, un poster, il Club Hacienda). Il brano, segnato da un cupo giro di chitarra, è ancora piuttosto grezzo e lascia presagire poco di quanto deve venire, ma presenta da subito al pubblico la voce baritonale e solenne di Topping, che sarà un tratto distintivo della band e porterà a infiniti paragoni con il più celebre Curtis.
La tendenza della Factory a sperimentare diversi formati a supporto della musica spiega anche la stranezza della successiva uscita della band, datata 1980, e rappresentata da una cassetta intitolata The Graveyard And The Ballroom, dato che il lato A è un demo registrato ai Graveyard Studios di Prestwich su un quattro piste, mentre il lato B è un live tratto da un concerto all'Electric Ballroom di Londra. Il materiale, che non uscirà mai su Lp e verrà pubblicato su cd solo nel 2004, contiene versioni rudimentali di canzoni che finiranno sul vero e proprio disco d'esordio e su singoli coevi, come "Flight", "Choir", "The Fox". La cupezza di questi primi episodi riflette l'ambiente e il contesto dei loro primi concerti, che si svolgono in edifici un tempo adibiti a scopi bellici, come il Sally's Army in Hulme Street, con la band vestita in divise paramilitari a produrre ritmi marziali e aggressivi.
Più importante è però l'humus musicale che incoraggia la band a formulare la sua singolare miscela sonora: i cinque, fan del funk afroamericano di Parliament-Funkadelic, vengono spinti a inseguire l'idea di musica nera rifatta da bianchi dal dj Robert Gretton (futuro manager dei Joy Division), che mescola punk, reggae e Northern soul nelle serate al Russell Club, nonché dal solito Wilson, che identifica in Johnson un candidato perfetto, in quanto drummer di scuola funky. Oggi il musicista dichiara di essere stato attratto proprio dal fatto che le chitarre erano usate dai compagni in chiave ritmica e non rock: "Il punto era che usavano gli strumenti sbagliati per produrre i ritmi giusti. Volevo aggiungervi qualcosa, per poi liberarli, e cominciare a fare altre cose. Il fatto è che suonavano come nessun altro".
Liberati dallo spirito spontaneista del punk, i membri del gruppo sembrano decisi a scavalcare la barriera che divide quest'ultimo dalla musica da ballo secondo una chiusura mentale più ideologica che musicale (uno slogan del periodo era "disco sucks"), sulla scorta degli esperimenti analoghi prodotti dai newyorkesi Talking Heads e dal guru britannico Brian Eno. La dichiarazione programmatica d'intenti è il singolo "Shack Up" del 1980, cover di un classico funky americano degli anni Settanta dei Banbarras. Il brano è vivace e riesce nel compito di dichiarare la propria affiliazione al sound funky urbano d'oltreoceano e di denotare allo stesso tempo l'originalità della band, che emerge soprattutto dalla voce cupa di Topping e dall'utilizzo straniante della tromba.
La vera svolta viene però dal relativo successo del pezzo in America: Wilson affitta un loft a New York e spedisce la band a registrare un Lp nella Grande Mela insieme al produttore Martin Hannett.
Il risultato sono il singolo "Flight" dell'ottobre 1980 e l'Lp To Each... del maggio 1981. "Flight" è uno dei pezzi più significativi, e porta ovunque il tocco personalissimo di Hannett, già messo all'opera nei celebri album dei Joy Division. Il brano è un lungo (sei minuti) e lento impasto di ritmiche funky, punteggiato da impalpabili interventi di tastiera e dal baritonale recitato di Topping. La musica nera viene trasformata in un suono freddo, geometrico, quasi metafisico, un ambiente dove i vocalizzi di Topping si sovrappongono in sussurri e improvvisi distorsioni, mescolandosi a una materia sonora ora riempita dagli interventi di chitarra, ora aperta in ampi squarci di sogno dai synth. E' una cavalcata onirica guidata dal basso rigoroso e geometrico di Kerr. Chi conosce l'opera del produttore su "Closer" non può non rifarsi a quell'Lp per cercare un riferimento, eppure qui sembra molto importante anche la lezione dei Talking Heads di "Fear Of Music" e "Remain In Light", dove appunto il funk si faceva solenne e metafisico, alla ricerca del cuore oscuro di una metropoli vissuta come ambiente mentale e ossessione futuribile.
Il lato B è anche importante: "Penso che la miglior cosa che Hannett abbia fatto per noi sia stata 'Blown Away' sul lato B di 'Flight'... si trattava sostanzialmente di una traccia di percussioni. E lui l'ha portata a un altro livello con tutte queste tracce di suoni", dice oggi il chitarrista nell'intervista contenuta nell'antologia Early.
Gli interventi di Hannett creano un clima assolutamente spettrale, angosciante, senza togliere nulla alla potenza trascinante di una ritmica di derivazione africana. "And Then Again", sempre contenuta sul secondo lato del dodici pollici (ma già presente in versione live sul retro di "Shack Up") ribadisce ulteriormente quanto detto con un ulteriore concerto di echi, ritmi ipnotici, sonorità sinistre e disturbanti. Sono i sogni neo-tribali dei Talking Heads, fautori di una nuova Babele delle culture e dei suoni, trasportati in una dimensione decisamente più sinistra, da autentico incubo industriale, da un gruppo che ha in mente New York e negli occhi il paesaggio di una Manchester desolata e travolta dal degrado in seguito alla crisi dell'industria.
Ecco quindi che il gioco di pieni e vuoti che sottende tanti brani dell'esordio To Each... sembra rievocare la cupezza dei paesaggi urbani, con gli enormi palazzi-caserma che lasciano spalancare voragini di tenebre tra i loro corpi. E' una geometria da archeologia industriale a rendere solenni ritmi spezzati e spigolosi, mentre gli interventi della voce si intervallano a suoni di varia natura e a deliranti incursioni della tromba per trasportare il tutto in una dimensione straniante e allucinata. Prova di questo è "The Fox", magistrale funk tribale dove la voce lascia ben presto spazio a effetti e ossessioni ritmiche per creare un vero e proprio paesaggio mentale, molto distante dalla fisicità della musica nera, e decisamente pervaso da alienazione e gelo esistenziale.
L'andamento meccanico di "Felch", scandito da una chitarra dalla timbrica sorda, sembra figlio tanto del tribalismo nero quanto dell'estetica algida e inquietante dell'uomo-macchina, della completa spersonalizzazione dell'individuo nell'ambiente urbano che porterà al proto-industrial dei Cabaret Voltaire. Il brano finisce per deragliare in un ulteriore intervento di tromba da parte di Topping, segnalando il tema della nevrosi interiore in un modo molto più musicale e concreto di quello, piuttosto letterario, che renderà famosi i Joy Division. E' per questa sua vocazione genuinamente sperimentale e rumorista, che spesso lo porta a "sparire"dal pezzo, che il cantante perde la sfida con Curtis nel rappresentare la voce della wave di Manchester, investendosi però di un carisma sinistro piuttosto originale.
Fa da contrappunto, sull'Lp di debutto, un brano più decisamente rock come "Choir", dove il basso è pulsante, la chitarrina ritmica viene affiancata da un riff più corposo, la voce declama baritonale e epica, soverchiata a tratti da uno straniante coro di voci bianche. "My Spirit" sembra muoversi in un territorio di mezzo, con la solita pulsione funk spezzata dagli interventi di una chitarra echeggiante.
Il cuore dell'album sta però nelle liturgie ipnotiche di "Oceans, Loss" e soprattutto di "Forced Laugh", dove la voce di Topping si fa salmodiante quanto un canto gregoriano, mentre un pattern ossessivo di batteria costruisce un'atmosfera di ansia e tensione fino al crescendo dei sempre più inquietanti break di tromba, soltanto per poi ricadere nella stasi. Un basso ossianico e una chitarra effettata punteggiano il tutto, creando un effetto di grande atmosfera.
Sembra che in questo disco Hannett sia riuscito a lavorare su un incrocio tra rock e ambient che coi Joy Division era riuscito solo ad accennare (vengono in mente episodi come "Candidate" e "Autosuggestion", appunto minori), data la natura sanguigna e granitica di quella band e il suo background decisamente più rock. Gli A Certain Ratio sono invece più astratti, duttili, sperimentali. Quest'ultima è una qualità che viene spesso dimenticata nei recenti revival del post-punk, che sembrano fondarsi sulla efficacia di molte canzoni del periodo, tralasciando invece le ricerche più concentrate sul suono, sulle qualità ipnotiche del connubio tra ritmi afro ed elettronica, ovvero tra la trance ancestrale e quella futuribile. Vero manifesto di questa attitudine è la "Winter Hill" che chiude l'Lp, una cavalcata apocalittica, spiritata, sospinta da una ritmica africana mai tanto tribale, su cui si levano echi di voci distorte, come in un mantra invasato e minaccioso. E' un brano agghiacciante, che riesce ad evocare il "cuore di tenebra" africano di Conrad in un contesto urbano feroce, notturno, da catastrofe imminente. Vero capolavoro dell'album, si potrebbe paragonare a esperimenti simili condotti da Brian Eno ("My Life In The Bush Of Ghosts") e New Order ("Denial"), ma soprattutto da gruppi di area industrial come Cabaret Voltaire, sottolineando quindi una vicinanza al lato più esoterico, quasi neo-pagano, delle ricerche coeve sul ritmo, parallele ma nettamente distinte dai percorsi che conducono ai dancefloor, sia pure alternativi.
Pare che il lavoro di produzione originariamente svolto da Hannett in New Jersey sia stato peraltro distrutto dallo sbaglio di un tecnico, costringendolo a un secondo tentativo a Manchester, considerato meno riuscito dalla band. To Each... e "Flight" restano comunque una testimonianza del ruolo fondamentale svolto dal produttore per quanto riguarda la prima parte della storia musicale della Factory, quella che coincide con l'epopea post-punk.
In questo stesso periodo si verifica forse l'episodio più surreale legato alla storia del gruppo, che riceve la richiesta di diventare la backing band di Grace Jones per una cover di "Houses In Motion" dei Talking Heads: ovviamente la risposta è un rifiuto, a mantenere la fedeltà verso lo spirito indipendente della Factory.
Un altro brano notevole è nel gennaio dell'81 il singolo "Do The Du", di nuovo tanto fresco e energico quanto nitido e geometrico, connubio tra il macinare incessante della sezione ritmica e lo spleen esistenziale del cantante. La più cadenzata "Waterline", lo stesso anno, introduce invece qualche variazione volta ad anticipare il secondo Lp, Sextet, del 1982. La frequentazione di New York porta intanto all'incontro con la vocalist Martha Tilson, che entra a fare parte della band (divenuta così un sestetto), ma anche all'approfondimento di ritmiche jazz e cubane, esasperando soprattutto l'uso delle percussioni. Una traccia come "Skipscada", fornita anche di fischietti e campanelli piuttosto demenziali, è un chiaro sintomo.
La band sembra tendere a liberarsi del forte marchio d'identità Factory, rifiutando questa volta l'imposizione del produttore Hannett e scegliendo la strada della auto-produzione. I suoni si fanno così più caldi e fisici, ne è esempio l'enfasi ritmica e percussiva di "Gum", dove però si evidenzia anche la pericolosa tendenza a trasformare l'originale senso geometrico degli inizi in un formalismo tanto austero quanto sterile.
In generale, l'album si indirizza in modo più deciso verso la strada di un funk intellettuale e bianco, già suggerita dai singoli, tralasciando le stasi inquietanti dell'esordio.
Intanto, mentre la band frequenta New York il panorama sonoro sta cambiando, con la nascita di rap, hip-hop ed electro, il successo di Africa Bambaataa, l'esplosione della figura del dj e dei locali che ospitano dj set, creando una rivoluzione musicale basata su prime forme di manipolazioni di nastri, remix ed estensione di brani allo scopo di protrarre l'estasi danzereccia. L'Africa e lo stile neo-tribale urbano sono moda anche nel mondo delle immagini e dell'arte, con il successo di Jean-Michel Basquiat, sponsorizzato proprio da quel Warhol con cui questa vicenda era iniziata. La cupezza new wave sta per lasciare spazio a connubi decisamente più edonisti ed energici, e l'etichetta Factory si adegua alla grande con due mosse decisive: la creazione di un club a Manchester, l'Hacienda, ad emulazione del Danceteria newyorkese, e la pubblicazione di "Blue Monday", rivoluzionario brano elettronico dei New Order (gli ex-Joy Division orfani del suicida Curtis).
Il brano più notevole di Sextet, nonché l'ultimo singolo importante della band è "Knife Slits Water", che ripropone una lenta cavalcata alla "Flight", dove però l'elettronica è diventata vero e proprio corpo sonoro (si veda il battito metronomico della drum machine) e non più semplice gioco di effetti e disturbi, su cui la voce della Tilson propone un recitato robotico, simile a quello di Laurie Anderson in "Big Science" (altro momento cruciale per la musica elettronica è il successo della sua "O Superman").
Nel variare degli stili, permangono alcune costanti che fanno grandi l'etichetta Factory e i gruppi che ne fanno parte: l'etica del duro lavoro da veri figli della working class, lo voglia di sperimentare, lo spirito artigianale con cui si svolge l'attività produttiva (per anni Wilson non firmerà veri e propri contratti e lavorerà sulla fiducia coi suoi gruppi). Gli A Certain Ratio approfondiscono sempre di più il discorso-dance, lasciando da parte gli accenti più sperimentali, aprendosi a vari ritmi latini, brasiliani e al reggae, memori anche degli ascolti giovanili di Moscrop in Sud Africa.
I'd Like To See You Again nell'ottobre '82 vede i ritmi da party di "Touch" e "Saturn", e marca l'ultima presenza di Simon Topping nella discografia della band.
Si chiude così la fase importante della storia degli A Certain Ratio, con l'abbandono di un personaggio che sembra racchiudere in sé le contraddizioni di una band decisamente originale, ma che sembra non riuscire a raccogliere i frutti di quanto seminato. Soprattutto, il cantante sembra aver sofferto la somiglianza del suo timbro vocale con quello di Curtis, che gli è valsa però soltanto critiche negative: "Eravamo sempre accusati di essere morbosi quando Simon cantava" dice Moscrop in un'intervista. Inutile sottolineare quanto sembri tragicomico leggere una affermazione del genere in un Duemila musicale dove i cloni di Ian Curtis prosperano e proliferano, dai pur nobili Interpol ai più irritanti Editors.
Anche per quanto riguarda la musica, il vero e proprio connubio rock-dance che trasformerà Manchester da grigia città industriale a capitale dello sballo alla fine degli anni Ottanta, con una Hacienda trasformata in un pezzo di Ibiza trapiantato al Nord, vedrà alla ribalta altri gruppi, dai New Order di "Tecnique" ai Primal Scream di "Screamadelica" (vero inno musicale all'esplosione dell'ecstasy) fino agli Happy Mondays e agli Stone Roses.
Nei primi anni Novanta finirà però la festa per la Factory, travolta dai debiti dell'Hacienda e da una conduzione musicale non più all'altezza della situazione (intanto, per dirne una, si sono fatti scappare gli Smiths), spazzata via da un panorama musicale dove lo spontaneismo ingenuo di Wilson sembra fuori luogo.
Gli A Certain Ratio sopravvivono attraverso vari cambi di formazione e album sempre più anonimi (Force dell'86, l'ultimo targato Factory, Good Together dell''89, Up In Downsville del '92, Change The Station del '96) fino ai giorni nostri, ma l'unica nota di rilievo è la partecipazione di Topping alla scena house cittadina con la band Quando Quango.
Mentre il revival della new wave, complici anche i tempi oscuri del Duemila, impazza, e la Factory viene celebrata da film ("24 Hour Party People" di Michael Winterbottom), soprattutto per i suoi eroi più in vista ("Control" di Anton Corbijn su Ian Curtis), mentre il cosiddetto punk-funk trova nuova vita tra !!! e Lcd Soundsystem, è giusto ricordare anche un gruppo come A Certain Ratio, piuttosto dimenticato ma meritevole di riscoperta.
Tra il 2004 e il 2005 tutti gli album storici della band sono stati ristampati, accompagnati dall'antologia Early che comprende i singoli dall'esordio fino all'85.
Un ultimo accenno va al mitico Tony Wilson, che chi scrive ricorda presentare i New Order in quel di Torino con una frase tipo "fuck U2, this is New Order": è mancato nel 2007 e ci vorrebbero più entusiasti come lui, per risollevare le sorti delle ex-città industriali.
Nel Duemila, però, gli A Certain Ratio ritrovano il gusto di suonare insieme, esibendosi anche negli Stati Uniti per la prima volta dal 1985 il 16 novembre 2008, come headliner del festival Part Time Punks al The Echo di Los Angeles e pubblicando un nuovo album in studio Mind Made Up The Same (2008), in cui i nostri appaiono in buona salute, con Donald Johnson a contribuire alla voce in alcuni episodi. Ancora guidata da artisti come Martin Moscrop, Jez Kerr e Denise Johnson, la band britannica sfodera una grintosa opening track come "I Feel Light", con un riff serrato e una freschezza ritmica degni dei tempi d'oro, che si sposano ad arrangiamenti raffinati e inquieti. Una combinazione esplorata anche in altri episodi del disco, come "Very Busy Man" e la title track, mentre "Rialto 6" sembra quasi un tema da spy-story anni 60. Prezioso l'apporto di Denise Johnson in "Down Down Down", con un arrangiamento guidato dal clavinet, mentre "Teri" riporta dritti in territori Durutti Column.
Nel 2018, la Mute Records inizia a ristampare il catalogo precedente della formazione britannica, facendo uscire anche acr:set, raccolta di brani per lo più vecchi con due inediti, uno ("Dirty Boy") registrato con Barry Adamson dei Magazine e contenente una registrazione di Tony Wilson.
Quindi, è la volta del cofanetto acr:box, sorta di retrospettiva per il 40° anniversario del gruppo, celebrato anche in tour.
Il successivo album di inediti ACR Loco (2020) è il loro primo lavoro con nuovo materiale in 12 anni e si avvale di tre dei membri originali della band - Jez Kerr, Martin Moscrop e Donald Johnson - insieme ai sessionmen dell'attuale organico live del gruppo. Un lavoro in cui traspaiono tutto il mestiere di questo stagionato ensemble, ma anche un sincero desiderio di mettersi ancora in gioco, intuibile da un brano d'apertura spiazzante come "Friends Around Us", che oscilla tra blues-rock, funky e drum'n'bass, bissato da un altro brano ad alto tasso di groove come "Bouncy Bouncy", che ammicca all'acid-jazz, mentre echi Madchester riaffiorano su tracce come "Yo Yo Gi" e "Supafreak". Non mancano anche momenti più soft, come la quasi romantica "Always In Love" e finanche dance ("Berlin").
Ma questo nuovo corso del gruppo, che ruota sempre attorno al trio dei fondatori (Donald Johnson, Jez Kerr e Martin Moscrop), sembra aver donato nuovo slancio all'avventura degli A Certain Ratio, che ci riprovano tre anni dopo con 1982 (2023). Il disco parte bene con la tripletta iniziale al fulmicotone: dalla psichedelia di "Samo" al ritmo selvaggio di “Waiting On A Train” fino alle cadenze da dancefloor della title track, con gli apporti preziosi del rapper Chunky e della vocalist Ellen Beth Abdi a dar man forte.
E se “Tombo in M3″ si estende in spazi più dilatati con un mood atmosferico, il ritmo torna a dettare legge in scorribande incalzanti come “Constant Curve” e “Holy Smoke”, che dimostrano ancora una volta lo stato di salute di un gruppo che sembra non volersi arrendere al tempo che passa.
E così, all'inizio del 2024, gli A Cerftain Ratio annunciano il loro nuovo disco, il tredicesimo in studio, It All Comes Down To This. Prodotto da Dan Carey, boss della etichetta Speedy Wunderground (già al fianco di Black Midi, Kae Tempest e Black Country, New Road), uscirà il 19 aprile su Mute. "Abbiamo scritto l’album mentre il mondo era in subbuglio, e lo è ancora - ha commentato Martin Moscrop - Se si pensa al cambiamento climatico, alla guerra aziendale, all’ambiente, a Trump al potere, a Johnson, alla guerra in Ucraina, a Israele e alla Palestina, tutto si riduce davvero a questo. È probabilmente l’album più politico che abbiamo realizzato".
A un solo un anno di distanza da 1982 tornano A Cerftain Ratio con il loro tredicesimo album.
Abituati, nella loro lunga carriera, a circondarsi di sessionmen e collaboratori, in “It All Comes Down to This”, gli ACR decidono di limitarsi al nucleo originario, rinunciando in parte al loro modus operandi, molto legato al periodo di grande sperimentazione nella quale è iniziata la loro avventura.
Quindi il cerchio si stringe agli storici Jez Kerr, Martin Moscrop e Donald Johnson, però coadiuvati alla produzione da Dan Carey, uno che di gruppi fuori dalle righe se ne intende.
Dall’incontro tra Dan Carey e gli ACR, che avevano già collaborato per il remix di “Down and Dirty” nel 2021, emerge la volontà di abbandonare, almeno in parte, il funk, mettendo da parte il basso slap, per provare a trovare un inedito compromesso tra le nuove melodie e le robuste ritmiche che da sempre caratterizzano il loro sound.
Si parte forte con la doppietta “All Comes Down to This” e “Keep It Real”: le chitarre svettano graffianti, sostenute dal poderoso drive di Donald Johnson, e dai synth che spingono facendosi largo in ogni pausa e sospensione.
Quando i beat rallentano, i suoni si incupiscono e l’atmosfera si fa soffocante nel torbido trip-hop di “Surfer Ticket” e nell’ansia dub di “Bitten by a Lizard”.
Ma in “It All Comes Down to This” i cambi di climax sono ricorrenti; quindi, se tra i synth ariosi di “God Knows” riappare qualche raggio di sole è in “Where You Coming From” trainata dal basso di Jez Kerr che si sente quasi risplendere l’euforia contagiosa di quella che fu la Madchester degli anni 90.
In “Estate Kings” è Donald Johnson a prendere il microfono per narrare della Manchester del suo passato mentre la tromba di Martin Moscrop ricama trame jazzate e se la finale ‘Dorothy Says” può sembrare dal titolo un omaggio ai Velvet il morbido andamento conferma ogni sospetto.
In sostanza è la grande varietà la forza di “It All Comes Down to This” e malgrado il rischio del dejà vu sia sempre dietro l’angolo, l’accoppiata Dan Carey e ACR si rivela vincente.
Ottimo il lavoro del produttore che ha saputo valorizzare il sound di una band con ancora tanta voglia mettersi in gioco.
Infatti, riprendendo il contagioso refrain di “Out from Under ", unica concessione al funk di tutto l’album, “Groove with the rhythm, it’s always giving", gli ACR hanno ancora tanto da dare.
The Graveyard And The Ballroom (cassetta, Factory, 1980) | 7 | |
To Each... (Factory, 1981) | 8 | |
Sextet (Factory, 1982) | 6,5 | |
I'd Like To See You Again (Factory, 1982) | 6 | |
Force (Factory, 1986) | 5 | |
Good Together (A&M, 1989) | 5 | |
MCR (A&M, 1990) | ||
Up In Downsville (Rob's, 1992) | 5 | |
Change The Station (Rob's, 1997) | 5 | |
A Certain Ratio Live in America (Live, Melodic, 1985) | ||
The Old And The New (antologia, Factory, 1986) | ||
Looking For A Certain Ratio (remixes, Creation, 1994) | ||
Early (antologia, Soul Jazz, 2002) | ||
Mind Made Up The Same (Slipcase, 2008) | ||
acr:set (antologia, Mute, 2018) | ||
ACR Loco (Mute, 2020) | ||
1982 (Mute, 2023) | ||
It All Comes Down To This (Mute, 2024) | 7,5 |
Sito ufficiale | |
Myspace | |
VIDEO | |
Flight (live) | |
Shack Up (videoclip) |