A volte, per fare rumore, non occorre nulla di veramente eclatante.
Non è necessario stravolgere quel che si è, o che si fa, a patto che ci si creda a sufficienza. Basta perseverare con le giuste motivazioni, spingersi a dare il massimo tenendo ben ferma la barra a dritta, e sperare con moderazione in qualche aiuto dalla buona sorte. Questo, al netto delle inevitabili semplificazioni, quanto realizzato dai Thee Oh Sees con “Help”. “Master’s Bedroom”, solo un anno prima, aveva rappresentato il giro di chiave, la prima sgasata, la partenza col rombo. L’incredibile cambio di passo nelle vicende artistiche del gruppo californiano andava tuttavia preservato da immediati contraccolpi, rilassamenti o rinculi caratteriali che ne vanificassero la gittata e che, nel contempo, placassero la febbre miracolosa di un artista vulcanico come John Dwyer. Rischi, questi ultimi, a dire il vero abbastanza trascurabili, considerando il curriculum da irriducibile del succitato musicista. Ad agevolare l’impresa, non va dimenticata neanche la crescente fama del collettivo come formidabile macchina da concerti, selvaggia e travolgente il giusto, perfezionata in un frenetico tour in giro per il mondo destinato a non arrestarsi prima di cinque intensissimi anni.
Quelli della In The Red li hanno notati, credono in loro e non esitano a concedere tutta la carta bianca che serve. Con Chris Woodhouse al suo posto in cabina di regia, la fiducia è ripagata presto grazie a questo quinto lp in catalogo, un disco a dir poco estroverso che promette di spingersi ben al di là della scoperta citazione beatlesiana. “Enemy Destruct” è l’emblema di una partenza con il piede giusto: una botta di adrenalina piazzata subito in apertura, come a voler battere il ferro ancora incandescente dell’album precedente. Shoun picchia come un fabbro, le chitarre macinano e centrifugano con regolarità metronomica ma il delirio è sempre pronto a esplodere, dietro ogni angolo. La vena euforica degli statunitensi non impiega troppo tempo a imporsi, con un Dwyer decisamente sopra le righe alle prese con uno dei suoi inesorabili motivetti. L’abito è quindi più squillante che mai, il fervore prossimo a tracimare, mentre si strizza l’occhio a un pop felicemente revivalista. John e Brigid, in combutta per l’intera durata della corsa, evocano i fantasmi della new wave di marca B-52’s, anche se l’apparentamento è sempre stato seccamente rifiutato dalla band, ben più scapigliata e abrasiva del modello, lanciata come un’auto impazzita sugli ascoltatori. Dal punto di vista melodico si tratta della loro opera più ardita o compromessa, a seconda delle prospettive, ma i cedimenti verso l’easy-listening non si traducono mai in una banalizzazione dei propri schemi. Semplicemente si registra un loro temporaneo superamento messo in atto per puro diletto, senza fare troppi calcoli e senza snaturarsi con commistioni evidentemente poco opportune.
La compagine non rinuncia quindi al suo plateale disimpegno, a quella maschera tra il faceto e l’allucinato chiamata a dar luogo a un bel contrasto con i calibri pesanti del proprio armamentario rock, pure indebitato fino al collo nei confronti dell’ortodossia seventies (i flauti accendono vaghi aromi progressivi qua e là, per dire). Sono proprio questi scaltri cortocircuiti, attivati a intermittenza dai mesmerici vocalismi del capobanda, a irretire implacabilmente in virtù di quella weirdness che sa di scintillante coccarda, canagliesca ma non ruffiana. La vena schizoide torna insomma allegramente a fare capolino, anticipando qualche (estemporaneo) sviluppo futuro, per quanto non venga mai sconfessata la scelta di dare campo a una lievità particolarmente contagiosa (come nel jangle non esasperato di “A Flag In The Court”). Anche limitando le esternazioni rumorose o le iperboli ritmiche, anche tenendo a freno la sua cantilenante e beata noncuranza lo-fi, la formazione californiana ha le carte in regola per intrattenere a dovere il proprio pubblico e lo fa attraverso scorribande sbarazzine, più orientate al bubblegum o al surf-rock che non alle sinistre incarnazioni del lavoro precedente. Quando guardano senza indugi alla psichedelia westcoastiana degli anni d’oro i Thee Oh Sees si rivelano davvero convincenti, irresistibili.
Una Dawson più volitiva in chiave estatica (“Can You See?”) pare molto meglio impiegata, a fuoco, perfettamente funzionale in ottica sunshine-pop, e poco importa per quel recupero bugiardo dei vezzosi cliché retrò, nella chiusa, dati in pasto a una bassa fedeltà che, quasi per necessità, ben si guarda dall’usare loro qualsivoglia riguardo. La distorsione lisergica, come accennato, non manca di farsi trovare nel posto e nel momento più adatti, al pari delle digressioni floreali, e questo fa indiscutibilmente di “Help” uno degli album più solari e gioiosi del gruppo, quello che – con ogni probabilità – i quattro di San Francisco si sono maggiormente divertiti a scrivere e registrare. Poi certo, da un collettivo che ha eletto le infrazioni a stella polare espressiva sarebbe assurdo non attendersi eccezioni. Nello specifico di questo suo lavoro, l’anomalia si presenta piuttosto tardi con la torva e incombente “Destroyed Fortress Reappears”, animata dall’interpretazione autistica di John. La muraglia sonora resta preminente, ossessiva, implacabile, ma ad aprirvi una breccia è proprio quel fondo di alienante follia che deforma, corrompe e sgretola la solidità dell’impianto in un finale di combustioni forse inevitabili. Nel quadro generale la deviazione è comunque assorbita senza colpo ferire e la miscela non potrebbe anzi essere più godibile, un po’ come le inattese reminescenze sixties qua e là presenti, di volta in volta deturpate o anabolizzate a seconda dello spirito e del momento.
Così il garage dei Thee Oh Sees ha finalmente una fisionomia limpida, disinvolta, e il successo della formula, almeno nel chiuso confortevole del loro orticello di riferimento, sembra davvero alla portata. Il merito va ascritto anche a un album di consolidamento importante quale “Help” rimane a tutti gli effetti.
17/03/2014