Quando un batterista ti cambia la vita.
Ne ha provati diversi John Dwyer, prima di trovare in Mike Shoun quello giusto. Quello capace di catapultare la sua timida creatura in una dimensione “più festaiola”, di regalarle con quel drumming vertiginoso l’occasione per una brusca sterzata, in primis caratteriale. Il salto di qualità non poteva che venire di conseguenza, accreditato finalmente ai Thee Oh Sees. Il cambio d’intestazione non va al di là di una vocale e di un margine di separazione in più, l’etichetta resta quella “di famiglia” dei due più immediati predecessori. Eppure “The Master’s Bedroom Is Worth Spending A Night In” è lontano anni luce da quanto licenziato da John sino a ora. Parte del merito, con ogni probabilità, spetta al guru della scena punk di Sacramento, quel Chris Woodhouse tornato a collaborare con Dwyer dopo anni (con gli Hospitals, il precedente) e pronto a dare il via a un sodalizio che non verrà più interrotto. Anche all’ascoltatore privo di malizie non occorrono che pochi secondi per riscontrare come quella avvenuta nel quartier generale del gruppo californiano sia una svolta di quelle radicali. Le ritmiche si sono fatte preminenti, squillanti le chitarre, più rotondo e tonante il sound, sbarazzino il taglio: gli Oh Sees si sono trasformati all’improvviso in uno schiacciasassi, una “gioiosa macchina da guerra”, ma provano ugualmente ad approcciare formule più accessibili e trasparenti, meno fumose o caotiche. Certo rumore, riverberi, tuoni, effettacci e pozze scurissime restano gli espedienti prediletti della compagine di San Francisco, ma ora le sue canzoni si scoprono granitiche e disinvolte come mai in precedenza.
Sonorità ossessive e angoscianti hanno preso ad andare a braccetto con una godibilissima faciloneria slacker, dando vita a ibridi impuri, sinistri, minacciosi e pieni di sporcizia seppur assai meno ingenui di quanto potrebbe sembrare. Felicemente rock e devastanti, gli Oh Sees portano a sublimazione vecchi stereotipi garage negli incerti limiti di uno stile informe, incalzante, puntuto e totalitario. Come nell’incredibile “Two Drummers Disappear” (un rimando all’addio di Mullins e Baer?), dove la componente ludica è seconda forse soltanto all’impatto bruciante del loro arsenale, al solito denso di impurità, scaglie, ghiaia; o come in “Grease 2”, scorribanda gustosa come ne scriveranno a pacchi in seguito, leggere come filastrocche per bambini, taglienti come lamiere vecchie, robuste come la sgangherata centrifuga di una lavatrice. Le cavalcate irresistibili si susseguono senza soluzione di continuità, ora più ora meno sgraziate da un’approssimazione comunque mai prevaricante. In questo marasma a ciclo continuo, le due chitarre si infiammano spesso e volentieri senza mai fermarsi, senza chiudersi in futili esercizi onanistici, preferendo insistere piuttosto nella loro impassibile corsa a perdifiato. Allo stesso modo, spirali e vortici disciplinati non fagocitano i brani privandoli di un loro pur sfuggente costrutto, e anche questa rientra di diritto tra le loro più meritorie prerogative: la forma non si impone mai di petto sulla sostanza.
Se appare semplicemente formidabile il reattore ritmico alimentato dall’inesorabile grattugia elettrica di Dammitt, a risultare davvero ridimensionato è il ruolo della Dawson, pure insolitamente felpata e anguillesca (a tratti) accanto alla sua controparte maschile: ridotta a pallida enclave nel disco, “You Will See This Dog Before You Die” rappresenta una rimanenza irrancidita dal precedente catalogo, affogata qui senza alcuna pietà in un ambiguo e ingombrante field recording. I quattro californiani riescono implacabili in una parte centrale che si serve con fare malandrino di opzioni easy-listening, abbruttendole sistematicamente attraverso il proprio sudiciume noisy e i grimaldelli di un lo-fi tenuto comunque ben al di sotto della soglia di guardia: episodi potenti insomma, ma capaci di sposare una leggerezza più tipicamente pop. “Grease” rappresenta forse il titolo – passatista quasi per necessità – in cui è più facile cogliere la qualità dei detournement espressivi operati dal gruppo, filologico e accurato nei propri sabotaggi (anche da logori stilemi doo-wop).
Irriducibili nella loro franchezza sin strafottente, John e sodali scrivono nei solchi dell’album alcuni dei loro più grandi classici per l’indiavolato repertorio live dei giorni a venire. Tra questi “Block Of Ice” e “Ghost In The Trees” (presenti in tutt’altra forma nel precedente “The Hounds Of Foggy Notion”) ma anche il non proprio accomodante dodici pollici “Quadrospazzed”, uno dei brani più schiumanti e deliranti del lotto, festa di grovigli e canaloni sonici in cui il magma sonoro appare particolarmente irruento e travolgente (e la cui torrenziale virulenza troverà una degna continuazione in alcuni dei passaggi più detonanti e velenosi di “Carrion Crawler / The Dream”). Il disco è insomma come una nuvola nera che annunci tempesta e porti piogge acidissime. E’ un lavoro sensazionale già solo nei frangenti in cui si apre alla contemplazione come in “Graveyard Drug Party”, moloch estatico carico di contraddizioni e implicite tensioni sotterranee, che ricorda i Besnard Lakes effervescenti dello stesso periodo. “The Master’s Bedroom Is Worth Spending A Night In” è davvero uno degli album chiave del collettivo. Vitalissimo, opportuno praticamente sotto ogni aspetto, cruciale per l’evoluzione della band. E transitorio, ma in un certo senso già definitivo.
Folli e malinconici, aulici e zavorrati, i Thee Oh Sees costruiscono così le fondamenta di un’estetica che da qui in poi sarà – di volta in volta – sgrezzata o esacerbata, compromessa dall’incontro con un passato mitologico o scagliata come senza pilota in una prospettiva di compiaciuto deragliamento a tutto campo.
Con ovvi ringraziamenti a Mike Shoun, nuovo motore per nuove (e più elevate) prestazioni.14/03/2014