Il mio nome è Simon Le Bon, ho sbattuto su Timbaland e mi sono risvegliato nel 1982. Sono matto, in coma o sono uno dei Duran Duran?! Pare che solo lo stato di salute, mentale e fisica, dell’ex sex symbol dei bei tempi che furono sia incontestabile; per il resto, beh, è tutto vero: Le Bon e i suoi ci stanno chiamando da un non precisato mese dell 1982, in mezzo a una calca umana incipriata e imbellettata, di turchino vestita, calzante mocassini bianchi e fumante sigarette Merit. L’atmosfera è febbrile, la musica che si ode è ricolma di frequenze basse, di ritmi funky, di sequencer sfavillanti. Un mare di coriandoli cala sugli astanti da soffitti stroboscopici, il tutto mentre un countdown recitato con tono malizioso fa capire che sì, un nuovo anno sta per iniziare. Un capodanno new romantic, fashion funky, brilliant smart, Fiorucci stickers, Australian Open con polsini e fascetta detergi studio line gel, tra mosse lascive e sorrisi maliziosi. E sembrano tutti felici, nonostante il costante incubo della bomba atomica. “Perché vogliamo essere ancora la band con cui ballare quando si decideranno a buttarla quella fottuta bomba”, urla con effetto eco dirompente Le Bon.
Insomma, i Duran son tornati, tra flash e microfoni, e paiono proprio quelli veri, quelli originali, senza meches ma con un sound che più electrosynthfunkpostpunk non si può. Alla fine la notizia diventa un’altra: con "All You Need Is Now", in barba all’appena citato titolo, gli ex Fab Five poi Four per la prima volta si citano addosso, guardando ripetutamente nello specchietto retrovisore, chiudendo un cerchio che pareva infinito. Al punto che ora come ora potrebbero fare anche armi e bagagli e ritirarsi su altre frequenze.
Nove brani nove e neanche un riempitivo. Tutto costruito a dovere, tutto suonato con afflato giovanile persino esagerato. L’appoggio di un produttore alla moda, pretenzioso, molto furbo come Mark Ronson, oltre che abilissimo costruttore di macchine perfettamente oliate. È lui, antico tifoso duraniano, a consigliare, a escogitare, a spingere il ritorno verso antichi lidi; il riabbracciare strumentazione e tecniche esecutive vintage fatte di synth analogici, bassi gommosi, rullanti secchi e tom rotondi e accordati. Più un pizzico di chitarra, funky e allusiva a condire, impreziosire il tutto. Con il missaggio a opera di "mister curriculum della madonna" Mark Stent. Et voilà, a voi la perfetta formula pop from early eighties, la stessa che da ormai un decennio non pochi stanno cercando di fare propria. Si diceva del titolo prescelto: tutto ciò di cui abbiamo bisogno è qui davanti a noi, sta nel presente.
Ed è vero, se ne sono accorti gli stessi Duran Duran, da sempre intenti a trovare strade magari troppo impervie, fuori dalle proprie corde, ma soprattutto da quelle dei propri aficionados, mentre intorno un sacco di giovanotti lucrano e reinterpretano la tua materia prediletta. E allora via a tutta birra, come nel 1982, come accadeva sui solchi di "Rio", i primi tre brani sono una scarica di adrenalina.
La title track parte distorta, quasi rabbiosa, con tastiere sporche e dominanti, quasi una strofa propiziatoria per un classico ritornello corale, di quelli che ti si imprimono in fronte e non te li schiodi più. Ma è solo un assaggio, perché poi arriva la cavalcata electro “Blame The Machines”, con ultraclassico cantanto nasale, cori eroici presi dalle Blitz Night, rime decadenti che citano le gesta di antichi eroi (“I’m driving up the autobahn losing my way as the night gets long the headlights shining in my face scream out the danger of this place”); un portamento danzante in primo piano che si esalta in “Being Followed”, apoteosi della dance song 1979-1983, con basso pulsante, cantato misterioso, chitarra a metà strada tra un tema bondiano e la foresta curiana, un ritornello a tutta gola che riscrive i Blondie più atomici. Un attimo di respiro con la morbida semi-ballad “Leave A Light On”, con incipit tastieristico modello Visage e ci si accorge che la struttura ritmica non molla mai l’osso, anche quando i passi di danza si fanno più cadenzati. Gli ex fratelli John e Roger Taylor hanno riscoperto l’antico fuoco funk-punk, nato e cresciuto quando si immaginavano di ballare i Liquid Liquid allo Studio 54, ed eccoli uscire trionfanti e godersi la passerella di “Safe (In The Heat Of The Moment)”, con la scissor sister Anna Matronic che disquisisce perfettamente a tempo nella migliore imitazione del super-classico “Rapture”. E ancora, “Girl Panic!”, con esagitati incastri di basso slap e cassa da panico appunto, mentre Le Bon urla “with all the voices in my head the clever words I never said of all the things to happen… “. Un vero sballo! Quasi un capogiro, e infatti Simon si accerta delle condizioni generali “Do You Know Where We Are… “, “The Man Who Stole The Leopard” e l’atmosfera si fa glaciale ancorché sensuale, con i synth Roland sibilanti di Mr. Rhodes, echi plateali di “The Chauffeur” e “Tel Aviv”, cantato lontano, soffuso, brumoso, la contro voce di Kelis in versione leopardo robotico, tagliente, insinuante, sempre al guinzaglio, archi a profusione arrangiati e diretti da Owen Pallett, passaggi sinistri spezzati dalla premiata ditta John&Roger, bass and drums rotondi modello “The Seventh Stranger”, finale con fruscio vinilitico, voce recitata e sample catturato dal Nino Rota di “Rocco e i suoi fratelli”.
Per i fan più antichi, quindi per i fan, una pacchia insperata. Il finale è cerchiobottista, grazie a un altro passo di danza pop, “Run Runaway”, con le apprezzabili svisate di chitarra di Dom Brown, sostituto del sempre rimpianto Andy Taylor, e le urla alla Tarzan boy con sordina di Le Bon modello new romantic, e la quasi “prokofieviana" "Before The Rain", chiusura spettrale, ad effetto come i testi plastificati del singer dagli occhi blu nel suo formato più teatrale (“all rise you promises broken, call my lovers by their names, lost hearts and words that are spoken to the wind, which blows before the rain”). Che si tratti di opera profondamente sentita o di abile strategia per fare contenti miriadi di fan mugugnanti non conta più, è musica pop da ascoltare ovunque e ordunque, scatenata e riflessiva, divertente e inebriante. Anche molto giovane, ma non pacchiana o, peggio, patetica. Una riscoperta totale delle proprie radici che non hanno niente di vissuto, polveroso, retorico. Il problema ora è farlo sentire il disco, visto che i quattro non hanno una casa discografica, pubblicano tutto su iTunes e solo fra un paio di mesi anche in versione fisica, con modalità indipendenti e con l’aggiunta pure di qualche altro brano. I sorrisi però sembrano tornati quelli di un tempo. Ma il passato, benché dorato, spesso è solo una dolorosa illusione, come canterebbe il Le Bon.
31/12/2010