Eugene Hutz è ormai una star. Il gitano cova uova d'oro, forte dell'investitura al palcoscenico planetario ricevuta qualche anno fa da Madonna, e di una recente produzione di tutto rispetto da parte di Rick Rubin.
"Trans - Continental Hustle" è il quinto lavoro in studio dei Gogol Bordello, collettivo multietnico sempre aperto, brillante esempio di un melting pot che continua a congiungere distanze e culture altrimenti lontane anni luce l'una dall'altra, incarnando perfettamente quel pluralismo tanto invocato dalla sociologia più à-la page. Nell'ensemble, all'oggi, non manca alcun continente, dal bassista etiope, al violinista russo, passando attraverso le percussioni dell'Ecuador e il rap degli Stati Uniti.
E allora? Dov'è il problema? Il problema non esiste, perché tutto procede secondo una tabella di marcia assolutamente coerente, in fondo nessuna svendita alla major, nessuna sbavatura, tanta suggestione dal mondo, allegria e tristezza che rendono l'altalena sempre precaria, un uso del colore che esclude a priori il bianco e nero e tutta la scala dei grigi, ed Eugene che dirige l'opera con lo stesso, naturale ed ancora (chissà per quanto) felicemente inconsapevole carisma.
Solo un lieve sopravvento del folk d'ogni dove, sul gene punk, se pensiamo all'esordio fuori schema di "Gipsy Punks". Naturalmente gli amanti delle sonorità etniche ne gioiranno, ma chi è avvezzo alla provocazione della dissonanza e aveva amato i Gogol Bordello per andar ai loro concerti e mescolarsi ai radical chic finto-gitani, rubando loro la scena con la furia del proprio pogo, potrebbe restar perplesso.
Oggettivamente, non tutto è perduto, perché l'ottovolante dei Balcani assume diverse morfologie, dal classico "Pala Tute", alla contaminazione in levare di "Raise The Knowledge", passando attraverso il matrimonio klezmer di "My Companjera".
Eugene non dimentica completamente il rock, impalcatura sonora di "Rebellious Love", che anticipa e predispone l'animo a "We Comin' Rougher (Immigraniada)", unica traccia scoppiettante di quel gipsy punk che tanto ci piacque. In "Last One Goes the Hope" viene compiuto un esperimento di bizzarra commistione tra multiculturalismo alla Manu Chao e intermittenti inserti di rap da ghetto newyorkese, e il gioco al rimpiattino con il latinismo, stavolta delle Americhe, continua anche nella title track, che comincia a Cuba, e finisce non si sa precisamente dove.
C'è spazio anche per il languore tzigano di "Sun Is On My Side", calda ballata al chiaro di luna.
Un istinto più sfacciato, qualche traccia in meno, e la magia del glocalismo sarebbe rimasta la stessa.
Ma dal vivo, è sempre un'altra, strabiliante storia.
03/07/2010