Cleveland, Ohio, 1974. Cinque ragazzi battono i locali più sperduti di una città dimenticata da Dio per presentare la loro devastante musica a un mondo che, della loro musica e della loro stessa esistenza, se ne fotte. Si fanno chiamare Rocket From The Tombs e chi ha avuto il privilegio di vederli dal vivo avrà pensato a una reincarnazione dadaista degli Stooges.
Durarono soltanto otto mesi, i Rocket From The Tombs, ma tanto gli bastò per scrivere canzoni rimaste scolpite nella pietra, inni post-punk prima del punk come "Sonic Reducer", "Final Solution", "Ain't It Fun" e "30 Seconds Over Tokyo". Nonostante all'epoca non abbiano pubblicato nessun disco, e nemmeno uno straccio di singolo, il loro nome e le loro gesta sono diventate col tempo leggenda, epica, mito. Dalle loro ceneri nacquero infatti due della band più importanti degli anni Settanta: i Pere Ubu - dell'istrionico cantante David Thomas e del fantasmagorico chitarrista Peter Laughner - e i Dead Boys - dell'altro chitarrista Cheetah Chrome e del batterista John Madansky. Erano stati proprio loro quattro, insieme al bassista Craig Bell, a dar vita alla breve quanto incendiaria stagione dei Rocket From The Tombs, la cui leggenda è stata tramandata negli anni di appassionato in appassionato pur senza l'ausilio di una pubblicazione ufficiale.
Poi, nel 2002, a ventotto anni di distanza dalla loro formazione, David Thomas ha improvvisamente deciso di aprire il baule dei ricordi, dando così alle stampe l'imperdibile "The Day The Earth Met The Rocket From The Tombs", antologia della Smog Veil che raccoglieva finalmente l'esiguo materiale registrato dalla band all'epoca. Due anni dopo, la sigla veniva riesumata per una reunion che definire surreale è un eufemismo. Thomas, Chrome e Bell decidevano così di dare un seguito a quella storia che forse si era interrotta troppo frettolosamente. Nel frattempo però Madanski non era più della partita e Laughner, purtroppo, nemmeno più di questo mondo. Al loro posto furono arruolati Richard Lloyd, storico chitarrista dei Television, e Steve Mehlman, compagno di Thomas nei Pere Ubu. Il primo frutto della seconda vita dei Rocket From The Tombs è stato "Rocket Redux", disco che riproponeva il materiale storico della band ri-suonato e ri-registrato per l'occasione.
Da quel disco sono passati sette anni, ben 37 da quando tutto ebbe inizio, e tocca ora a "Barfly" chiudere il cerchio con undici canzoni inedite, registrate tra il gennaio del 2009 e l'agosto del 2010. In pratica è il loro vero esordio. Tranquilli, però, non si tratta di una patetica operazione "nostalgia". I Rocket From The Tombs fanno sul serio: sono venuti a riprendersi gli anni perduti. E se li riprendono con gli interessi appena "I Sell Soul" aggredisce i timpani con una batteria pestona, un basso lanciato a velocità propulsiva e folgori elettriche di chitarra capaci di fulminare anche i più scettici. Sì, la carica eversiva è rimasta intatta e quando arriva la ballata sgangherata "Romeo & Juliet" non sai se ridere o piangere per come la chitarra di Lloyd si contorce, drammatica, avvinghiandosi al canto da cane bastonato di Thomas. D'altronde il confine tra tragedia e farsa è labile; ce l'hanno insegnato gli stessi Pere Ubu, di cui "Birth Day" e "Six And Two" rispolverano la teatralità assurdista.
L'aspetto davvero sorprendente di "Barfly" è che in alcuni episodi potrebbe persino ambire alla conquista di un'ampia fetta di pubblico. Basti pensare a canzoni di presa immediata come "Sister Love Train" (ovvero, i Blues Brothers che rifanno gli MC5) e "Pretty" (pezzo d'altri tempi tra armonie byrdsiane e chitarrismo flower-power), mentre "Butcherhouse 4" e "Maelstrom", con la loro ritmica martellante e gli imponenti riff tellurici, parlano un linguaggio post-grunge per niente scontato.
Non solo mestiere, dunque. Altro che reduci.
19/11/2011