Il palermitano Gioele Valenti, già compartecipe dello scomparso progetto sperimentale Foreyard, avvia in proprio Herself con “Please Please Please Leave Now” (2005), un disco autoprodotto in cui la sua volontà poetica si esprime tramite con blues tra Tom Waits e Howe Gelb come “Beggars and Sand”, canzoni-meditazioni come “Know You”, sussurri alienati alla Nick Drake come “So Nice”.
I suoi arrangiamenti sono costituiti da tocchi digitali, o lontane distorsioni, o variazioni sul silenzio, che indicano un puro senso di solitudine. Il cd raccoglie anche il collage ambient-techno di “The Hardest Thing to Say” e il folk-pop con canto distorto di “Patrick Swayze”, la sua prima canzone compiuta. Nonostante i limiti da opera prima, e nonostante la palese volontà lo-fi, Valenti qui brilla per compostezza.
Con “God Is A Major” (Jestrai, 2006) comincia lo stile maturo, un Elliott Smith in versione insistente che fa forza sugli accordi, e poco si accompagna alla delicatezza dell’esordio (anche se “July 2 by the Lake” lo ricorda da vicino), tanto è vero che Valenti prova a dare persino una sua versione dell’hard-rock (“Perpetual, Youth”).
“Homework” (Jestrai, 2008) prosegue e quasi termina il processo di purificazioni dalle asperità esistenziali, pur preservando anomalie: “King Kong”, chamber-pop che diviene alieno ed elettronico, “The One”, flirt con distorsione e percussione stomp, “Meet Miriam At The Park”, crescendo che rende complesso il ritmo, “Between Two Starz”, dei My Bloody Valentine introspettivi. A parte un nuovo numero duro, “Hate 1”, vi è anche una “King Of Glory” con gran scatto lisergico, la sua più supersonica.
Dopo qualche uscita corta, in “Herself” le canzoni si amalgamano l’una con l’altra. A partire dalla programmatica “Stranglers Who’s Me”, un po’ tutte sono in realtà cantate solitarie con suoni d’atmosfera in piccole dosi: “Here We Are”, dominata dall’apporto di band vera e propria (specie le tastiere), “Luna Park”, i cui archi allarmati sommergono il suo usuale arpeggio ramingo, “How You Killed Me”, il cui basso solenne spicca tra soffio del canto e soffio delle tastiere. Una vera magia si ha nei giochi cromatici di “Sugar Free Punk Rock”, i cui arrangiamenti anti-schematici, ventosi ed elettronici, trasformano la canzone in pura meditazione di atmosfere da camera (che altrove, come in “Something in This House”, suonano fuori equilibrio).
Il pop antiquato, ancora a insistere con l'usuale folk cantabile in cui il canto non è più sfumato come un tempo, spadroneggia in “Funny Creatures” e “The River”. La sua vena sperimentale si appiattisce nella ninna-nanna di “Tempus Fugit” (con una seconda parte però caratterizzata da una ficcante base ritmica e magia di distorsioni), e nel post-rock amatoriale di “Outside the Church”.
Coerente, con una precisa scelta di tonalità che vale per tutti i brani, arretra spesso nel sottofondo di lusso senza asperità né anomalie di arrangiamento, e punta a una distensione a tavolino confezionata dal leader assieme a Toti Valente e Aldo Ammirata (basso, violoncello, sampler), con gli apporti di Amaury “Ulan Bator” Cambuzat (chitarra, wurlitzer, controcanto), Piero Vizzini e Toti Valente (batteria), Marco Campitelli (percussioni e synth).
30/09/2012