Personaggio vulcanico ed eccentrico, Danny Brown da Detroit, folletto freakedelico, con quel look che pare una via di mezzo fra Dose One dei Clouddead e George Clinton, rapper dalle traiettorie sempre alate e vertiginose, musicalmente anello di congiunzione fra diverse anime dell’hip-hop alternativo al di qua e al di là dell’Atlantico. Esordisce tardi, già sulla trentina, all’alba degli anni 10, dopo una gavetta alquanto oscura, ma decolla subito con una doppietta che non lascia spazio a dubbi sul suo enorme talento e sul suo stile stordente e obliquo, “The Hybrid” (2010) e “XXX” (2011), quest’ultimo in particolare incoronato disco hip-hop dell’anno da buona parte della critica più influente e sensibile alle contaminazioni del genere. E ora si ripresenta ai nastri di partenza con quello che ha tutta l’aria di essere l’album della definitiva consacrazione, anche commerciale.
Goliardicamente vintage e anacronistico fin dalla copertina, strutturato in due ideali facciate (“side A” e “side B”) come un concept degli anni 70, una prima dedicata a una rivisitazione personale di sonorità oldschool e una seconda decisamente più (post)moderna e sperimentale, “Old” traccia una linea zigzagante e immaginaria fra la psichedelia black di un J-Dilla, un Kanye West pre-delirio d’onnipotenza e schegge fluorescenti sparpagliate dalla deflagrazione dell’elettronica post-grime britannica.
Prodotto sotto l’egida di A-Trak – alias Alain Macklovitch già pluricampione di turntable, ex-dj dal vivo per Kanye, nonché proprietario della prestigiosa etichetta Fool’s Gold – e arricchito in fase di scrittura dai contributi d’eccezione di Rustie, musicista electro scozzese di scuola Warp e Hyperdub, Badbadnotgood (non potevano mancare) e Oh No (più i feat. vocali di A$ap Rocky, Schoolboy Q e Freddie Gibbs), il nuovo lavoro di Brown mette a fuoco la prova smagliante del suo interprete unita a un’ormai consumata abilità nel coniugare un caleidoscopio di sonorità allucinate ed esuberanze freak in brani che raramente eccedono i tre minuti, scentrati eppure riconoscibili nella loro forma rap.
L’omaggio rielaborato e personale allo street rap di scuola Wu-Tang di “Side A (Old)” o quello agli Outkast (“Return Of The G.”) in “The Return” introducono una prima parte dove la fredda e sintetica “25 Bucks”, resa ancor più glaciale dal cantato femminile desaturato di Purity Ring, fa il paio con la distopia gotica e cinematica di “Torture” (prodotta da Oh No), mentre la vena psichedelica e retro-futurista di “Wonderbread”, con quel loop di chitarra alla Grateful Dead in sottofondo sulla marcetta stralunata del beat, trova riscontro nell’arpeggio jingle-jangle anni 60 dell’introspettiva “Lonely” e nell’elegante collage di voci filtrate (kraftwerkiane?) che costituiscono la strofa di “Clean Up”.
La svolta decisiva arriva però con “Side B (Dope Song)”, fondamentale nel fare da spartiacque, con i break-beat martellanti di Rustie e i bassi rimbalzanti come su pareti imbottite che danno il La a una danza di spiritelli allegorici e drogati, ideale viatico per un viaggio sempre più abbacinante nella mente sconvolta, nel vitalismo tossico e delirante di un Danny Brown che ora mostra il lato oscuro della sua faccia da clown (triste), joker dal ghigno sempre più nevrotico e assuefatto agli stupefacenti. Un viaggio che fa tappa nel drum’n’bass ubriaco di “Smokin’ & Drinkin’”, nei suoni warpiani accelerati a dancefloor tribale e triviale in “Break It Go” e “Way Up Here” (sempre di Rustie) e che tocca l’apice nel ritornello cyber e collassato, rap “radioheadiano” se mai n’è esistito uno, della splendida “Kush Coma”, prima di cercare un rifugio notturno nell’elegante ricovero smooth e soulful dei Badbadnotgood con “Float On”.
Indubbiamente uno dei dischi hip-hop più cruciali e riusciti dell’intera annata. Da non mancare.
12/11/2013