Che il sistema di distribuzione e diffusione della musica non sia più quello anche solo di dieci anni fa, è un dato di fatto incontestabile, rosicchiato fino al midollo dall'avanzata incontrastata del peer-to-peer e del download selvaggio, contro il quale a ben poco sono servite manovre sensazionaliste nel corso degli anni. Che da questa disgregazione dell'impianto tradizionale del music business (sempre più in affanno) moltissimi musicisti e band ne abbiano tratto un enorme vantaggio, in termini di circolazione della propria proposta e non soltanto, è un altro dato di fatto. Ma è forse anche a causa di questo incontrollato traffico di informazioni, che piccoli tesori nascosti fanno fatica ad emergere, a trovare il proprio spazio nello scenario febbrile di una dimensione che premia, forse ancora più che in passato, chi piazza meglio il suo prodotto col messaggio più accattivante.
Nella categoria di simili lavori, di artisti che forse, con un briciolo di considerazione in più, potrebbero ambire a grandissime cose, rientra senz'altro il cantautore canadese Frédéric Boisclair, in arte Fred Woods, che con “Documenta” firma la sua prima prova discografica, disponibile integralmente all'ascolto nella sua pagina Bandcamp personale. E per essere il primo prodotto, il frutto di una carriera appena avviata, c'è da dire che il disco del giovane polistrumentista di Shawinigan (ma da tempo di stanza a Montréal) gode di una maturità e di una spiccata sensibilità compositiva, che nei dieci bozzetti in bassa fedeltà qui presenti non manca di manifestarsi sotto molteplici forme, donando all'accorato mood del disco una vasta gamma di sfumature.
Perché, a scapito di quanti ritengono che gli unici cantautori a proporre la loro musica su piattaforme quali Bandcamp e simili siano dediti a scarni dialoghi con la sola chitarra (o pianoforte), l'autore e polistrumentista dal Québec veste i suoi brani (quasi tutti scritti di suo esclusivo pugno) di arrangiamenti densi e più elaborati del previsto, che conferiscono al raccoglimento di una scrittura comunque filiforme una vasta gamma di fogge con cui potersi fasciare. Accanto all'arpeggiare pensieroso e in minore della acustica, figurano quindi tastiere, un ukulele, percussioni e batteria, un harmonium, ma soprattutto, una ricca compagine di ottoni, grazie alla quale si arriva a quella visione espansa di musica folk, che negli ultimi tempi ha preso piede in maniera decisamente trasversale.
E infatti, più che alla grandeur di un Sufjan Stevens o di un Jens Carelius, quest'album tiene gli occhi decisamente puntati al lirismo virtuoso di Bon Iver e dei suoi vari epigoni, per quanto poi da questo carrozzone oramai inflazionatissimo Boisclair si distingua grazie a un patetismo decisamente tenuto a bada e una sensibilità melodica ben distante, maggiormente improntata a una grafia “slow” da cameretta. Sfumate e posate, le sottili aperture melodiche di “Documenta” vedono quindi Woods sciorinare con tremula grazia le sue assorte riflessioni in punta di dita, le quali anche nella varietà degli arrangiamenti restano le vere protagoniste del discorso, il fulcro espressivo su cui si imperniano le diverse spoglie sonore.
Anche grazie al discreto temperamento interpretativo del canadese, abile nel muoversi con trasporto e calore sopra le brulicanti filigrane strumentali, le canzoni si susseguono in un flusso emotivo ininterrotto, senza mai accennare a cali di tensione di sorta. Dopo la rapida partenza coi sottili tratteggi atmosferici di “Bygone” (a cui rispondono da vicino le uggiose brume sintetiche di “Positiv”), il restante lavoro si snoda tra flemmatici avvolgimenti appena scanditi da un picking ora più centrale nella costruzione del brano (“Come Out”), ora invece volto a consistenti interazioni col restante spettro strumentale, sconfinando sovente in (in)dolenti aperture dall'espressività graduale e fumosa, che non disdegna contatti con una vaga attitudine cameristica (dalla conclusiva, bellissima, “Red”, passando per il piglio assorbito dell'ultimo Patrick Phelan in “Rebuilt”, screziato da brevi incursioni di synth).
E mentre le melodie scorrono, col fragile pizzicare d'acustica a formare il morbido letto che le accoglie, è sufficiente la voce di Woods, tra rapimento e profonda malinconia, a lambire con delicatezza le corde dell'anima, in timide confessioni a cui non serve altro che uno slancio sommesso per svelare pienamente la propria intensità. Pur nella “solitudine” delle quattro mura di casa (ricordiamoci come il disco rappresenti lo sforzo di un collettivo), la genuina sensibilità autoriale del canadese trascende pienamente tali angusti confini, sprigionando una forza al tempo stesso tragica e accogliente: un ossimoro che chi lo sentirà vicino non tarderà a far proprio.
13/03/2013