A volte si ha la sensazione di doversi sentire pronti ad ascoltare un disco. Con “Haw” succede proprio questo: si tratta di un album che, come pochi altri, sa risvegliare la spiritualità mai sopita dell’America, che sia quella dei primordi (Haw è infatti sia il nome di un fiume del North Carolina, presso il quale ha anche vissuto con la sua famiglia Michael C. Taylor, autore del disco), o quella del tempestoso futuro prossimo.
La schiera di personaggi biblici citati nel disco fa così eco a quella di musicisti della scena di Durham (gente dei Megafaun e dei Black Twig Pickers), tutti chiamati a scolpire un racconto di naturalezza paleocristiana, nel quale Taylor si fa profeta umile di canzoni di purezza cristallina, orchestrate attraverso i suoi caratteristici, fluidi pattern di accordi.
Dallo stacco in maggiore della strofa di “Red Rose Nantahala”, gustosamente anni 70, che si ammanta di groove nella preghiera del ritornello (“Oh Lord, let me be happy”), si passa al cupo incedere Young-iano di “Sufferer (Love My Conqueror)”, che già si collega all’estetica del sodale Elephant Micah e del compianto Jason Molina (si veda anche, come esempio simile, “Busted Note”). Ma ecco che la scenografia si illumina di cori soul e grandi, epiche coloriture d’archi, oltre che di un sommesso intercalare di sax – e già si intravede la stoffa di un grande lavoro che si dipana.
Certo non è attraverso la melodia che si esprime la poesia di “Haw”, ma attraverso una scrittura sottile e fortemente emotiva, esaltata da arrangiamenti e suoni come sempre curati nei minimi dettagli. Per questo nuovo disco di Hiss Golden Messenger tira la brezza di una grande ispirazione naturalistica, non distante da un grande saggio dell’America “profonda” come Grant-Lee Phillips (grandiosi l’inno di “I’ve Got A Name For The Newborn Child” e la contemplazione sommessa di “Cheerwine Easter”).
Tutto “Haw” procede compatto ma sempre animato da un fuoco trascendente, come dimostrano le improvvise strumentali “Hat Of Rain”, danza neo-folk, e del fiddle origliato, tra grilli e ululati, di “Hark Maker (Glory Rag)”.
Ed è così che si palesa, in musica, l’America di Steinbeck e Faulkner: violenta e pura, come lo spirito.
05/04/2013