Fedele come pochi ad uno spirito di collaborazione senza confini, il sempre generosissimo Mark Lanegan torna a poco più di un anno dal notevole "Blues Funeral" con un nuovo sodalizio e relativa raccolta di canzoni. A beneficiare del suo slancio è questa volta l’estroso musicista londinese Duke Garwood, uno spirito affine che l’ex-frontman degli Screaming Trees ha già ospitato proprio nella più recente fatica in studio della sua band e portato in tour qualche tempo fa come opener per i Gutter Twins. Diversamente da quanto avvenuto con il doppio supporto ai Soulsavers o nell’ultimo (fiacco) episodio del progetto condiviso con Isobel Campbell, in questo caso sembra fuori luogo liquidare il disco come l’ennesimo ricco cameo del cantante di Ellensburg. Anche al di là delle inevitabili parole entusiaste di Mark in merito al connubio, l’intesa tra i due artisti pare infatti solida e convincente.
Certo Lanegan recita la propria parte fino in fondo, e un senso di déjà vu va messo in conto per forza. Garwood è però molto bravo a lavorare con discrezione, insinuando grazie ai suoi magnetici fraseggi acustici un senso di inquietudine non banale che finisce per condizionare il compagno. Fingerpicker abile quasi quanto un James Blackshaw, con nelle corde le suggestioni di un Greg Weeks solo un tantino più narcotico, l’inglese si regala le dissertazioni strumentali che aprono e chiudono il cerchio nel solco di un solipsismo folk scuro ed ipnotico. Nel mezzo il cantante impazza con la sua inconfondibile cifra espressiva, tra sussulti di pura classe e cliché egualmente risaputi. L’impressione offerta in rampa di lancio da “Pentacostal” – titolo in stile Lanegan che è già tutto un programma – è che il Nostro giostri attraverso il mestiere con palesi finalità conservative, seppur in una confezione più povera del consueto curata dagli “amici” del circolo QOTSA Alain Johannes & Justin Smith. Che si staglino in tutto il loro nitore gli scenari aridi tanto cari allo statunitense, o che Duke si cimenti con un pianoforte oltremodo incombente, Mark è spesso a rischio di appiattimento su formule stereotipate, dalla posa del consumato folksinger del deserto all’enfasi luciferina di un Waits riciclato.
Piacciano o meno, i suoi classici numeri da istrione si confermano fortemente caratterizzati e molto ben serviti, in questa occasione, dall’ordito minimale ritornante e denso d’ombre elaborato dal chitarrista. Garwood predispone un sottotesto musicale disadorno capace di imporsi in termini atmosferici senza mai risultare invadente, ideale contesto, quindi, per far risaltare una voce che sembra ormai potere tutto, simbolo e teatro di un mondo, di un’epica, di un mood inarrivabile. Altrove prevale invece una dimensione raccolta ammirevole, con una concretezza terrena (“Mescalito”) o un velo malinconico (il clarino di “War Memorial” ad esempio) che non gli sono nuovi ma impressionano sempre. Quello di “Death Rides a White Horse” poi è un Lanegan lento, estatico – e magari invecchiato, perché no? – che pare specchiarsi nella solennità dei classici Delta Blues per fare proprio l’afflato di un Charley Patton.
Rispetto al modello quasi obbligato delle “Field Songs”, in questo “Black Pudding” si scorge meno meraviglia ma più umanità, con le imperfezioni e i limiti formali dell’operazione necessariamente tenuti in bella vista. “Driver” rivela allora per converso un artista che si adopera per mantenere un profilo più basso dello standard, salmodiando una specie di preghiera laica non esasperata nella maniera e non tirata mai all’eccesso. Quasi una dieta depurante per lui, da cui esce esaltato il suo lato più genuino, anche nell’ordinario. L’immobilismo apparente della parte musicale rende magari disagevoli e scontrosi diversi dei brani qui presenti ma alla fine, entrati nello spirito dell’album, non si potrà che constatare che sempre di lui si tratta, ancora là a cantare di redenzione come se il tempo non fosse passato.
E con qualche bella sorpresa finale. L’accattivante funky-blues vizioso di “Cold Molly”, per esempio, che riavvicina al clima contaminato dell’ultima fatica con in più l’eccellente lavoro sporco di Duke, chiamato a straziare senza posa le sue chitarre. Non mancheranno gli scettici ma è difficile negare che in questa veste anomala e, per così dire, “compromessa”, gli esorcismi dell’ex-Screaming Trees rendano particolarmente bene. Per rasserenare i nostalgici oltranzisti è sufficiente la perla “Shade of the Sun”, assai disciplinata e sostenuta a dovere dall’accompagnamento incantatorio dell’harmonium, con un suono insieme catartico e malato. Una sublime infezione, di cui non poteva che essere portatore l’impareggiabile Mark Lanegan.
16/05/2013