Sembra essere passato un secolo, da un punto di vista musicale, dalla pubblicazione di “Hold On Now, Youngster…”, esordio dei Los Campesinos!. Era il 2008 e la grande marcia di quello che veniva chiamato, in modo piuttosto generalista, “indie-rock” sembrava davvero inarrestabile: capitando in una serata qualsiasi sul genere, in mezzo al gigantesco calderone dove venivano gettate le realtà Strokes, Libertines, Interpol, Bloc Party e le prossime next big thing già in rampa di lancio (Kasabian, Arctic Monkeys, Foals, Editors in ordine sparso), qualche dj particolarmente illuminato riusciva sovente a inserire nella propria playlist le adrenaliche “Death To Los Campesinos!” o “You! Me! Dancing!”.
La declinazione pop che questo collettivo gallese aveva dato ai lavori più strettamente lo-fi di band come Pavement e Broken Social Scene era stato il loro passepartout per il grande salto. O almeno relativamente grande, perché i Los Campesinos! non sono mai riusciti realmente a “fare il botto” come altri loro illustri - e a volte meno meritevoli - colleghi, limitandosi ad acquisire nel circuito alternativo del Regno Unito lo status di cult-band.
Cinque anni e quattro album dopo, nessuno dei quali davvero deludente, la band guidata da Gareth si contraddistingue ancora per l’invidiabile coerenza e perseveranza con cui porta avanti il proprio discorso musicale. Non saranno più i Los Campesinos twee degli esordi, ma “No Blues”, riprendendo il solco del predecessore “Hello Sadness” e rendendo più melodici certi passaggi, non si allontana molto dall’energia che sprigionavano i due mini-Lp pubblicati agli inizi. Come a non mancare sono i consueti riferimenti intelligenti al calcio, espediente sempre utilizzato per raccontare le proprie turbe sentimentali; d’altronde uno dei maestri di Gareth Campesinons è proprio Paul Heaton, autore con i suoi Housemartins dell’ormai classico “London 0 Hull 4”.
Così, guidati dai synth in una delle più intense break-up song che possiate incontrare in questo 2013 (“Glue Me”), è normale imbattersi in frasi del tipo “People laugh, they will call it folly/ but we connected like a Yeboah volley” e “I requested a room with a view, in the middle of a war between me and you/ And leave with all the dignity of missed Panenka penalty”. Che pensandoci su, sono due concetti piuttosto forti espressi attraverso due analogie leggere: il primo è simbolo della perfezione, mentre il secondo rappresenta una delle massime umiliazioni nel gioco del calcio, ovvero sbagliare un rigore “alla Panenka”, o come lo chiamiamo noi ora in Italia, il “cucchiaio”, reso celebre da Totti a Euro 2000.
E ancora la maledizione di Béla Guttman (nella luminosa “Let It Spill”) per impedire alle ex-fidanzate di avere rapporti con altri, o la rappresentazione dell’ultima disperata mossa “I’ve thrown my goalkeeper forward/ she’s catenaccio”, nel crescendo iniziale del brano d’apertura “For Flotsam”.
E’ un album di alti e bassi, di sbalzi pronti a sfruttare, all’occorrenza, un certo tipo di soluzioni elettroniche sghembe: non ci si lasci ingannare dal ritmo da arena-pop del singolo “What Death Leaves Behind Me”, c’è molto più colore e varietà di quel che sembra in questo lavoro. “No Blues” risplende infatti di un’insolita e inusuale luce, dove melodie particolarmente ariose si scontrano con liriche non propriamente ottimiste. La morte d’altronde è quasi una costante e non importa se in quel momento ti sei alzato in piedi e ti stai muovendo, trascinato dal ritmo: la voce di Gareth sarà lì a ricordartela: “Two words upon my headstone, please/ don't need date or name, just ‘Sad Story’” canta lapidario in “Cemetery Gaits”. Nemmeno i momenti più vitali e danzerecci vengono risparmiati: “Oh it won’t get better, that doesn’t mean it’s gonna get any worse” è il massimo della positività espressa nell’esplosiva “Avocado, Baby”, ricordo dei vecchi(?) tempi con un coro di cheerleader gallesi a fare da sparring partner.
Dopo la dipartita di Aleksandra, “No Blues” è il primo disco che si trova a fare i conti anche con l’assenza di Ellen, altra componente storica del gruppo gallese. Eppure, se non stessimo parlando dei Los Campesinos!, non esiteremmo a definirlo come il disco della maturità. In realtà, sono solo cresciuti e noi con loro: non riempiranno mai un palazzetto, ma, esattamente come quella band che ascoltavate a ripetizione al liceo, difficilmente vi deluderanno.
27/11/2013