In quel di Pesaro, negli ultimi anni, c'è stato un notevole fermento in ambito
indie: volendo limitarsi ai soli territori della
wave e affini, vanno citati senza dubbio i
Be Forest, i Damien (e il
side-project Death In Plains), i General Decay, il dream-pop di Young Wrists (quelli di
Maria Antonietta) e
Brothers In Law e, ovviamente, il post-punk dei Soviet Soviet.
I Soviet Soviet che, dalla formazione (2008) ad oggi, hanno fatto un sacco di strada: la prima volta li ho visti suonare in un club
underground milanese (al Ligera con i Frank Just Frank), poi li ho rivisti sull'elettrizzante palco del Drop Dead Festival di Berlino, e più avanti ancora li ho incontrati ai Magazzini Generali di Milano: aprivano per gli
Horrors in sostituzione dei defezionari
S.C.U.M.. C'è anche un recente tour statunitense che ha toccato East e West Coast nel loro curriculum, e qualche settimana fa si sono esibiti su un palco ancora più grande, come
opening-act per i
Pil di John Lydon.
Un simile successo non può essere frutto del solo caso o di azzeccate manovre di marketing: alla base di tutto c'è senz'altro la concretezza della loro musica, un solido e veloce post-punk. "Veloce": ecco, se dovessi scegliere un solo aggettivo per descrivere il sound dei pesaresi direi proprio "veloce"; il loro però non è uno scatto atletico, bensì il guizzo dell'emozione che dura un attimo ("Gone Fast"), il ricordo fugace, vera e propria madeleine, che trafigge mente e cuore all'unisono.
Con questo "Fate" la
palette dei Soviet Soviet vira decisamente verso il nero, seguendo una formula i cui ingredienti sono noti: le melodie dei
Joy Division, le atmosfere umbratili dei
Cure più dark, un tocco di shoegaze e un cantante malinconico il cui timbro ricorda a tratti quello di
Brian Molko; una trama intrecciata da chitarre perennemente in fuga e ritmi pulsanti ("1990", "Something You Can't Forget"), un
trip introspettivo accompagnato dalla voce di Andrea Giometti, che suona distante e al tempo stesso vicina, con effetto straniante ma magnetico.
Un gruppo partito con il piede giusto (lo
split con i citati Frank Just Frank su Mannequin Records, i primi Ep) e che ha proseguito "affinando" le proprie armi (l'interessante mini-album "Summer, Jesus", pubblicato sempre dall'etichetta capitolina nel 2012). Questo
full-length possiede il fascino di una precoce maturità, di una gioventù inquieta, unica depositaria di certi umori; se la Scandinavia quest'anno ci ha consegnato le "opere seconde" di
Iceage e
Holograms, lo stivale (di questi tempi l'espressione "Bel Paese" mi sembra fuori luogo) risponde con i turbamenti dei tre Soviet Soviet contenuti nell'ottimo "Fate".
19/12/2013