Non vogliono proprio saperne di spegnere i motori i Thee Oh Sees. Pur avendo rallentato i giri sino al minimo sindacale di un Lp l’anno più immancabile razione accessoria in sette e dodici pollici, il gruppo di San Francisco rimane fedelissimo al motto del battere il ferro finché è caldo, sposato all’epoca – nemmeno dieci anni fa – in cui la ditta era ancora un progetto collaterale del solo capocantiere John Dwyer e si chiamava OCS (Oronoka Crash Suite o Orange County Sound, non si è mai capito). Mentre l’attività live della compagine californiana procede ininterrotta da tempo immemore, il suo 2013 discografico si è aperto solo un paio di settimane fa con la pubblicazione in simultanea dell’Ep “Moon Sick” e di quello che, conti alla mano, dovrebbe essere il suo diciassettesimo album, entrambi licenziati dalla label di famiglia. Questo “Floating Coffin”, tocca chiarirlo subito, è un disco improntato al consolidamento. Osa un tantino meno rispetto ai suoi tre più immediati predecessori ma contribuisce a fissare con buon profitto le linee di una cifra stilistica e di un sound già considerevolmente peculiari, riuscendo nel contempo a presentarsi coeso come alla band non capitava forse dai tempi dell’ottimo “The Master’s Bedroom”.
Nulla di nuovo sotto il sole della Baia quindi, eccetto la lapidaria ma sibillina didascalia “darker and heavier” affidata alle sempre attendibili note stampa della Castle Face. L’indizio è corretto. Da subito piacevolmente sinistre e gracchianti, le nuove canzoni si impongono in virtù di una personalità intensa ed equivoca, mentre la perentoria vigoria delle pedaliere rende come meglio non si potrebbe tutta la sporcizia minacciosa del loro inconfondibile afflato elettrico. La sezione ritmica al solito poderosa, corroborata dalla seconda batteria di Lars Finberg e dalle percussioni di Chris Woodhouse, contribuisce a dare profondità ad un lamento elusivo, angosciante e quasi sepolcrale, ed è da questo alveo cupo e gorgogliante che affiora come la più crudele delle lame arrugginite l’agguerrito fuzz del capobanda. Accade in “Night Crawler” ed è già una replica di quanto proposto nelle battute iniziali, con il sottofondo denso e magmatico tratteggiato dalla chitarra mugghiante di Petey Dammit a servire da perfetta cornice per lo sconclusionato retropalco di Dwyer – tutto urletti filtrati e barbagli in tonalità acidule – come sempre assoluto protagonista.
La sgroppata euforica dell’opener “I Come From The Mountain” replica a grandi linee l’avvio arrembante di “Putrifiers II”, tra vortici sonici e canaloni d’impressionante compattezza, mentre nella festosa guazza di asperità, detriti noise e inserti vocali trillanti della title track, le esagitate sei corde del gruppo spurgano feedback come non mai. Guidati dallo strafottente capitano Dwyer ben saldo ai posti di comando, gli Oh Sees suonano robusti e tarantolati secondo copione ma anche alquanto precisi, aprendo a un quantomai opportuno compromesso tra devastazione e raziocinio. La gioiosa altalena espressiva di “No Spell” rincara la dose alternando disciplina ed enfasi estremista, con le sonorità che paiono farsi più rotonde e cadenzate salvo rovesciare le premesse con nuove chiassose ulcerazioni. La band insomma non cede mai del tutto alla tentazione delle facili derive rumoriste: preferisce usare la testa e chiudere magari con eleganti nuance di effetti, come in questo caso, oppure con un bizzarro mix tra la propria più quieta incarnazione (modello “The Hounds Of Foggy Notion”) e la vaghezza sghemba ma fascinosa dei Sonic Youth di “Murray Street”.
Tra le pieghe di un album che – c’è da scommetterci – garantirà al gruppo nuovi seguaci, capita di imbattersi in riff nitidi, squillanti e capaci di sedurre grazie a una mistificante fluidità, brillante imitazione di certi standard progressive (e addirittura funk), con il cantante che gigioneggia beffardo e chiude di fatto le porte all’ennesimo fallace apparentamento. Si divertono e confondono questi Thee Oh Sees, in maniera se possibile anche più subdola che in passato, senza artifici davvero scoperti o influenze certe. E intanto da bravi virtuosi in maschera assimilano, ibridandoli con i propri stilemi da onnivori deviati, oltre quarant’anni di furiosa musica rock. Per fortuna non si è riassorbita l’adorabile anomalia di quell’istinto ludico, la naïveté isterica e fanciullesca che da sempre rappresenta una delle variabili più audaci nel grezzissimo corredo dei quattro californiani. Lo dice chiaramente il delirio in copertina e lo conferma per analogia “Strawberries 1+2”, pezzo che s’impenna, sbanda e si dimena tra scorribande quasi punk, dilatazioni psych, vitali rigonfiamenti à la Cramps e una graduale inesorabile discesa nell’oscurità, resa più pungente dai sempre impeccabili giochi d’ombre architettati da Dammit.
Se la disinvoltura dietro queste formule consolidate non fa più notizia, a sorprendere davvero, ancora una volta, sono le contaminazioni insolite e stranianti. C’è spazio così per il ritorno da sovrani di Brigid Dawson e del suo organo malefico (“Sweets Helicopter”) e per la parentesi ridanciana che rispolvera i frangenti più sopra le righe di “Warm Slime”, con tanto di lisergica ospitata per l’harpsicord di Kelley Stoltz (“Tunnel Time”). La chiusa con “Minotaur” è morbida e meno irrequieta della media, nel solco di una psichedelia limpida ma provocante (ribadita sull’Ep da “Candy Clock”, specie di detournement Kinks operato da Syd Barrett) che ha l’aspetto di uno scaltro incantesimo. A rendere il tutto particolarmente vibrante pensano l’uso eccelso degli archi e le voci ripulite dei due cantanti, davvero bravi nell’irretire l’ascoltatore con quello che è solo l’ultimo – e forse il più riuscito – dei loro villaggi Potëmkin.
06/05/2013