Non solo Tiny Ruins in quest’anno di cantautorato femminile neozelandese, ma anche l’esordiente Aldous Harding (il vero nome è però Hannah) e la sua voce fortemente caratterizzata (esile quanto quella della Newsom, ma non così irritante, con note timbriche più calde e che la rendono decisamente più classica e intensa).
E in effetti “Aldous Harding” ha il suono di un classico dimenticato, con le sue storie Faulkner-iane che si dipanano tra flebilmente epiche tessiture corali (“Stop Your Tears”) e frizzanti respiri d’archi (il singolo “Hunter”).
Un esordio forse appunto ancora troppo legato ai nomi della Nadler, della Bunyan, per farci scoprire la vera identità cantautorale della Harding, per il resto del tutto scoperta nell’ottima esecuzione, una convincente trance narrativa (“Titus Groan”, una delle più moderne con il suo arrangiamento scenografico), accesa dai sospiri e dall’intenta dizione.
È rintracciabile forse in una tecnica chitarristica ancora da perfezionare il limite attuale di Hannah, che si muove con buone intuizioni di scrittura e interpretazione lungo un canovaccio folk a tinte gotiche non proprio intonso.
(24/07/2014)