Il canzoniere del cosentino Dario Brunori, tra “Vol. 1” (Pippola, 2009) e “Vol. 2” (Picicca, 2011), ha spostato l’accento dalle storielle del suo passato con fare da hipster vintage, che fanno leva sulle sue capacità d’interpretazione sopra un accompagnamento perlopiù acustico, al presente generazionale della crisi, aggiungendovi una grande oleografia d’arrangiamenti leggeri anni 60 da avanspettacolo, una narrazione immedesimata alla Lucio Battisti e Rino Gaetano, e una certa colorita frenesia.
Non c’è dubbio che Brunori - cantautore come pure produttore - sia diventato uno dei nuovi cantori italici, erede di tanti cantautori medi, in grado di toccare il cuore degli ascoltatori. Questi primi due dischi gli valgono diversi premi e riconoscimenti (anche internazionali). Nella colonna sonora di “E’ nata una star?” (Picicca, 2012) compaiono poi gli strumentali di “Melodia a me” e soprattutto “Il Brucaliffo”, sette minuti di progressione folk-pop da camera, che rivelano un compositore più dotato e profondo.
Due notevoli novità fanno bella mostra nel nuovo “Il cammino di Santiago in taxi”. Da una parte, il tono confessionale affonda nel metafisico spingendosi ai massimi patetici livelli con elegie pianistiche De Gregori-iane in crescendo. “Arrivederci tristezza”, la più compassionevole, trova una progressione quasi trionfale di archi e vibrafono. La più carezzevole, “Kurt Cobain”, è una tortura psichica di toni pacati che rimuove la svenevolezza in uno scioglilingua cantilenante ed elogia il vuoto nell’urlo di “niente!”. “Maddalena e Madonna” è invece la più surreale, ricolma di umori elettronici e circensi che disturbano e dissonano.
L’altra dimensione, quasi schizofrenicamente all’opposto, è quella dell’atmosfera roboante. Brunori non è mai suonato così direttore d’orchestra nei suoi credibili camuffamenti di stile. “Nessuno” riproduce la brumosa suspense della “Down By The River” di Neil Young debordando in una jam cacofonica con sax atonale. La doppia “Il santo morto”/“Il manto corto” è tropicalia-funk sopra le righe che accompagna un testo quasi delirante di citazioni di altre canzoni (anche sue) e festeggia in una spumeggiante fantasia lounge.
La gioiosa esplosione tex-mex di “Mambo reazionario” - con echi della “Cuccurucucù” di Franco Battiato - è massimalismo che quasi stroppia, ma il country-pop di “Le quattro volte” è redento da una contagiosa andatura bubblegum e rimpinzato da una sporta di suoni giocattolosi. Dopo tanta baldoria però Brunori chiude l’album con il levigato valzer folkish di “Sol come sono Sol”, come se alla fine contassero sempre e comunque le sue radici acustiche.
Terzo e più musicale volume (una comunione con i titoli dei primi dischi di De André?), insieme il più cantabile e il più ineffabile, mantiene una snella ispirazione, la scioltezza monotona del canto, la calligrafia ingabbiata delle sue liriche costantemente in rima e talvolta sbriciolate in ritornelli che scuotono. Sublima maniera e qualunquismo in trovate retoriche che intrattengono ma più volentieri sviano, contemplano - non adottano - la disperazione. Discende e somiglia a una tradizione cantautorale viva ma non vitale; diventa, anche solo per la sua esistenza, simbolo di un pregiato contemporaneo. La sua “società in accomandita semplice” (Dario Della Rossa, Stefano Amato, Massimo Palermo, Mirko Onofrio, Simona Marrazzo) è una squadra affiatatissima. Registrato in un convento della bassa cosentina, co-prodotto dal valente e già ben rodato sound designer Taketo Gohara. Primo singolo con videoclip curato dal fido Giacomo Triglia: “Kurt Cobain”.
09/02/2014