Fantasmi ovunque. Ormai non passa notte che Chris Martin non rovisti negli armadi, non metta a soqquadro il ripostiglio, non controlli di aver chiuso la porta d’ingresso. Quisquilie domestiche dai risvolti psicologici. Timori e tremori che avanzano, che avvolgono il malcapitato casalingo del pop. Un sorriso spumeggiante qui, una parola buona là, un saltello entusiasta da una parte, una mano tesa dall’altra. Ha sempre una buona novella per tutti il buon Chris, ma a lui chi ci pensa? Il popolo vuole sempre nuovi versi per accompagnare le stelle cadenti ed esprimere desideri, l’industria rimira e rigira soddisfatta i fatturati, Bono attende i prossimi passi del biondo di Exeter per provare a soffiargli qualche idea, i parrucchieri ingolfano le sale di riviste narranti le mosse del marito di Gwyneth. E Chris risponde, sempre positivo, sempre accondiscendente, batte il ferro finché è caldo, ma ha paura ed è solo. Fare uno squillo? A chi? La moglie ha fatto le valigie; i compagni di viaggio sono i soliti comprimari, manovalanza affettuosa; magari Bono, ma in quel caso lo sgambetto sarebbe telefonatissimo.
E allora, eccolo attendere la semioscurità, imbracciare la chitarra a mo’ di arma contro gli spettri, accarezzare il piano, raggomitolare foglietti su foglietti, mettere nero su bianco la normalità più ammirata del globo. Non c’è nulla di strambo nelle traiettorie di Martin, mai che abbia rischiato oltre il dovuto, mai che abbia passeggiato su qualche ciglio sdrucciolevole. Ogni tanto qualche ufficio stampa ci prova a disegnarlo diversamente: influenze teutoniche, etniche, ah l’elettronica che fa capolino, e senti la voce modificata, trasfigurata, stavolta ci siamo, cambio di registro, si sente la mano di Brian Eno. Tutte fandonie, contorsionismi artefatti. Chris scrive sempre e solo canzoni e le scrive bene: classiche, ariose, felici, malinconiche, anche conturbanti, ma è sempre la solita solfa con un fil rouge a collegare le stagioni: la paura. Di sbagliare, di non azzeccare la strofa giusta, la modulazione vocale adeguata, di trasformarsi in un calimero del pop. Eppure ogni volta riesce a scovare la mappa del tesoro adeguata e prova a mettersi a nudo, conscio che l’onestà paghi. Magari non è vero, ma i risultati sono sempre rotondi, una sorta di panacea contro tutti i mali, tranne i suoi.
E il nuovo parto, pubblicizzato come sofferto, drammatico, problematico e invece solo l’ennesimo passettino nella quotidianità della star meno star di tutti i tempi. Dentro ci hanno lavorato innumerevoli mani e teste, ma alla fine è sempre e solo Chris: dalle soffici elucubrazioni, sempre pronte a esplodere ma alla fine recalcitranti di “Always On My Head”, che potrebbe intenerire Paul Buchanan, al classico sarcasmo di “Magic”, passo moscio e sguardo torvo per descrivere l’incanto della vita (credere nella magia, ma certo che sì, che mi costa?). E ancora il ritmo sonnecchiante e vagamente latino che si trasforma in saltello fischiettante di “Ink” o la dolcezza risaputa eppure sempre toccante di “True Love”.
E d’un tratto ti accorgi che Chris è Martin perché dipinge le illusioni di ogni giorno, accompagnando un biscotto che casca nella tazza del tè, un pomeriggio assolato e rapito dallo sguardo della ragazza della porta accanto, una notte calda a ridere e a ricordare. E se un moto di oscurità si impadronisce della mezzanotte, ecco arrivare subito la consolazione di “Another’s Arms”, un nuovo inizio accompagnato da cori angelici. E poi la buona notte, la ninna nanna passeggiata sui tasti di avorio di “O”, dove non succede nulla, ma invece succede tutto. E allora, grazie Chris, per aver regalato una nuova collezione di cartoline di abbagli che con te si trasformano in miraggi. Sogni d’oro, ma prima non dimenticare di dare una controllata anche sotto il letto.
04/06/2014